Imbersago: il vescovo di Gibuti incontra il Rotary e racconta la Missione in Somalia

La sua testimonianza era attesa e non ha deluso. Il racconto della missione tra terre a maggioranza musulmana, dove portare un crocifisso al petto significa rischiare la vita e non per questo tirarsi indietro nella carità al popolo che soffre la fame, la sete, l'analfabetismo hanno fatto calare un velo di interessato e rispettoso silenzio sull'uditorio del Rotary di Merate.

Monsignor Giorgio Bertin


Invitato da Alma Troisi Raccosta, a relazionare al Lido di Imbersago è stato Monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti che con Merate ha un legame tutto particolare. Da giovane studente di teologia, infatti, alla fine degli anni Sessanta passò un periodo nel Santuario di Santa Maria Nascente e qui, nel fiore della sua formazione, maturò l'idea di andare in Somalia. Un desiderio che trasformò la sua vita, legandolo indissolubilmente al continente africano.


"Mi occupo dei cristiani che vivono a Gibuti e in Somalia" ha raccontato Monsignor Bertin, frate francescano che a quella Croce appoggiata sul petto ha dedicato tutta la sua vita e cui si affida giorno per giorno "si tratta di una minoranza rispetto alla popolazione. L'azione della Chiesa è prettamente umanitaria, infatti abbiamo una dozzina di scuole aperte a tutti e lavoriamo con la Caritas internazionale. In questa gente l'abbandono a Dio è totale, colpisce sempre la loro Fede. Purtroppo la mancanza di alfabetizzazione e di cultura, impedisce loro di usare la ragione e così diventano preda di dittature e autocrazia. L'Islam è così attivo che diventa strumento di potere e di oppressione. Questi Paesi hanno zone estremamente povere: in Somalia su 10 milioni di abitanti, due milioni non arrivano a un pasto al giorno e 300mila bambini sotto i 5 anni soffrono di malnutrizione acuta. Dal 1991 la Somalia è senza un vero e proprio Stato e questo impedisce di attuare dei programmi di rilancio e rinascita, a beneficio anche della popolazione".

A minare ancora più la situazione già difficile c'è l'insicurezza creata dalle guerriglie e da bande armate che seminano terrore e violenza. "Nella Somalia del sud quando mi sposto non uso gli abiti religiosi e non porto alcun segno esterno perchè si rischia la vita a seconda di chi si incontra" ha proseguito il francescano "ci sono oltre un 1.200.000 sfollati nel Paese e nei territori vicini i rifugiati sono 900mila. A Gibuti invece la situazione è diversa perchè c'è un regime presidenziale forte che infonde sicurezza e tiene sotto controllo il paese. Ci sono anche basi militari di supporto e la situazione è più rilassata". L'impegno del religioso, come accennato, è soprattutto umanitario, senza distinzione di razza o religione. "La gente viene da noi perchè non sa da chi andare e non trova altri posti. Stiamo avviando all'alfabetizzazione un migliaio di ragazzi tra i 7 e i vent'anni, solo così si può partire a sconfiggere dalle radici la povertà. A Gibuti abbiamo un centro sanitario dove assistiamo i bambini di strada: qui gli ambulatori non sono sempre accessibili e sono spesso lontani dai villaggi. Noi allora li raccogliamo letteralmente dalla strada e li portiamo nei nostri istituti dove trovano l'aiuto necessario".

Una serata molto profonda e "umana" che ha raccontato, con gli occhi di chi ha visto, la povertà di una terra dilaniata da violenza e fame, che tenta una rinascita e che trova in chi è anche bollato come "infedele" per il suo Credo, un aiuto concreto e indispensabile per sopravvivere. Alla signora Alma un ringraziamento per l'opportunità concessa a soci e simpatizzanti di questa testimonianza di vita.
S.V.
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