LIBRI CHE RIMARRANNO/109: "Accabò" il romanzo di Isabella Becherucci che racconta la sorella Luisa

Di solito sconsiglio ai colleghi docenti universitari di cercare di essere romanzieri: troppo sapere, troppa tecnica, troppe intenzioni filosofiche finiscono per ostacolarsi a vicenda come auto ingolfate nel traffico, e fare tappo all’ispirazione, che è istinto e semplicità.
Di solito sconsiglio a chi voglia scrivere di attingere alla propria biografia: molti non detti, molte presupposizioni rischiano di non rendere chiaro ai lettori quello che invece era lapalissiano allo scrittore. E poi una scombinata gerarchia di valori: ci sono cose che sono state vissute e per questo vengono ritenute imprescindibili, ma non hanno alcuna funzione narrativa e, anzi, frenano la trama.
Di solito non leggo i libri degli amici. Succede sempre che ti dicano: “Dimmi la verità, ci tengo al tuo parere. Spara, senza farti scrupoli…”. Poi gli spieghi che cosa non ti è piaciuto e come potrebbero migliorare nel prossimo libro, e loro si incazzano!
Per tutti e tre questi motivi ho aspettato a lungo prima di leggere “Accabò” (Il canneto editore, 2024, pp.189, Euro16,00), il secondo romanzo di Isabella Becherucci, docente di Letteratura italiana all’Università Europea di Roma, finissima manzonista, filologa arcigna, e anche un po’ amica.
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Dopo “Gli amici di Brusuglio”, Becherucci maneggia adesso una materia diversa, personalissima, toccante: la vicenda della sorella maggiore, affetta da Trisomia 21 e scomparsa di recente, in piena pandemia da Covid-19.
Eravamo nel cortile di Villa Manzoni-Imbonati a Brusuglio quando me ne parlava. Là dove il nostro amato Manzoni aveva passeggiato, scritto “Il Cinque maggio” e i “Promessi sposi”, mentre si radunava il pubblico elegante dei grandi eventi mondani, Isabella mi parlava con gli occhi tremanti di questa storia che avrebbe voluto fare romanzo. Come omaggio, come catarsi, come scoperta.
“Accabò”, che prende il titolo da una delle parole apparentemente senza senso che la protagonista Luisa ripeteva spesso (ma l’episodio in cui sorge questa parola è da morir dal ridere!) avrebbe potuto essere appesantito da queste intenzioni, e invece è un romanzo vero, di quelli davvero grandi.
Non è la prima volta che la letteratura si accosta al tema della disabilità. Dico “letteratura” e non la qualunque narrativa, e penso soprattutto a “Nati due volte” di Pontiggia, di cui “Accabò” profuma. Si legge la comprensibile lotta tra maternage e vergogna, il pudore che lotta contro l’irresistibile ilarità che alcune azioni della protagonista suscitano, la responsabilità di proteggere e la disarmante sensazione che a volte il soggetto più forte è proprio quello che noi chiamiamo disabile.
A tutto ciò, Becherucci aggiunge un tocco di penna qui davvero maturo. Rispetto agli “Amici di Brusuglio” la scrittura è ugualmente cesellata e preziosa (per tanti versi un unicum nella sciatteria esibita di tanta narrativa moderna), ma più appuntita, meno leziosa, più chirurgica, persino nei turpiloqui.
Si vuol bene al personaggio di Luisa ad ogni svolta di pagina. E si vuol bene alla voce narrante di Isabella-“Disdetta” sin dall’incipit, comico nel suo incedere antifrastico.
Ho riso di gusto – si può dire senza pensare che sia politicamente scorretto? – delle invenzioni lessicali di Luisa, delle sue urla sguaiate alla finestra, la domenica mattina, gioendo del non dover andare a Messa con la famiglia “perché mi son venute le mestruassioni!”, dell’auto lasciata senza freno a mano, dei libri chiesti in prestito alla sorella dotta e restituiti “sbausciati”: che personaggio fantastico questa Luisa!
Ho fatto il tifo per lei e più ancora per la sorella narratrice, nella sua inevitabile gavetta accademica. Ne esce un quadro dissipato e purtroppo molto veritiero della scuola e dell’università italiana che solo uno spirito libero come Becherucci poteva adesso smascherare con tale feroce levità.
Ho cercato un po’ sul web notizie di alcuni dei personaggi che compaiono nelle pagine (la nonna, Luisa Becherucci, importantissima museologa, Rodolofo Siviero, 007 dell’arte) e poi ho smesso: ciascuno dei personaggi di questo libro, a partire dalle due protagoniste, avrebbe benissimo potuto non essere esistito, e non sarebbe cambiato nulla. Anzi.
Mi è piaciuto l'autobiografismo filigranato, intuibile ma pudico: più esposto avrebbe rovinato il libro, l’avrebbe tenuto incatenato al memoir autobiografico e luttuoso.
Invece “Accabò” è un romanzo vero, molto bello. Alla fine si rivela quasi un giallo, quando la filologa narrante raccoglie lo scartafaccio di Luisa, ne interpreta la grafia, ne coglie il senso, ne riporta una lirica, toccante: “Ogni volta che ti guarda negli occhi / amami perché sono dentro di te / amami perché sono nel tuo respiro / amami quando stai pensando altrove / io sono dove sta il tuo cuore…”.
Esce con un piccolo editore questo “Accabò”: vorrei davvero che potesse diventare grande.
Rubrica a cura del prof. Stefano Motta
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