Libri che rimarranno/100: ''Quel ramo del lago di Como'' di Maria Teresa Giaveri

Scriveva Pontiggia che i classici sono quegli scrittori capaci di sopravvivere agli anniversari, e il nostro Alessandro Manzoni in questo 2023 deve averne fatta tantissima di fatica, attaccato di fronte e alle spalle da orde di lacchè che hanno cercato di scrivere e vendere i propri libri godendo di fama riflessa.
Ne avevo già accennato qui (https://www.merateonline.it/notizie/130220/libri-che-rimarranno-96-manzoni-non-e-un-pettegolezzo-quattro-consigli-di-non-lettura-e-uno-scrigno-prezioso-da-comperare), smontando alcuni dei titoli più strombazzati di questo 2023.
Ci ritorno ancora perché ho appena finito di leggere un libretto che mi aveva incuriosito tantissimo, per l’idea, per la caratura dell’autrice, per la storia della casa editrice, sempre coraggiosa nel proporre lavori curatissimi: si tratta del romanzo breve di Maria Teresa Giaveri, “Quel ramo del lago di Como” (Neri Pozza 2023, pagg. 126, Euro 15,00). 
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Il romanzo prende le mosse da una citazione del Ripamonti che Manzoni incorpora nei “Promessi sposi” quando descrive l’innominato: “Anche alcuni prìncipi esteri – scrive citando lo storico – si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini”.
Quali prìncipi, di quali stati esteri, per quali scopi particolari si servono della collaborazione dell’innominato, al secolo Francesco Bernardino Visconti?
I “Promessi sposi” iniziano il 7 novembre 1628, esattamente quando si conclude l’assedio della Rochelle, quando terminano i contrasti tra D’Artagnan e il cardinal Richelieu, e finiscono “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas. E se Richelieu avesse assegnato a D’Artagnan&Co. una missione nella Lombardia dominata dagli Spagnoli? Siamo nel pieno della Guerra dei Trent’Anni, sta scoppiando il caso della successione nel Monferrato con l’assedio di Casale, a Milano si diffonderà, con la peste, la voce che il contagio è opera nientemeno che di “spie francesi”, e persino Renzo verrà scambiato per una di loro: nel mondo finto della letteratura non è affatto inverosimile che Athos, Porthos e Aramis arrivino sotto mentite spoglie in Lombardia.
Il libro di Maria Teresa Giaveri parte da questa felicissima intuizione.
E poi si perde.
Non subito: le prime pagine, con l’incontro fortuito tra i moschettieri e don Abbondio sono efficaci.
Lo è persino l’incontro con l’innominato, se tralasciamo il fatto che Giaveri abbocca all’incancrenita abitudine delle proloco lecchesi, uniche rimaste convinte che la rocca di Vercurago sia il castello dell’innominato. Giaveri ci casca con entrambi i piedi, facendo additare all’innominato il ruscello che dovrebbe segnare il confine con la Repubblica di Venezia e che invece scorre nella valle di Erve, molto più su. Ma queste sono pedanterie da manzonista, e dunque si può sorvolare. Il libro è sorprendente quando, nelle possibilità offerte da questa geniale idea, i moschettieri vengono coinvolti dal Nibbio nel rapimento di una giovane da un convento di Monza, e a cassetta della carrozza che nei “Promessi sposi” porta Lucia alla rocca dell’innominato siederà addirittura D’Artagnan. E tra le pagine c’è un colpo di scena mirabile che naturalmente io non svelo.
Poi, però, la storia si impantana in troppi rivoli, perde per strada troppe idee narrative ottime che avrebbero meritato ciascuna un romanzo a sé, o almeno un respiro più ampio delle cento e rotte pagine di questo racconto lungo. Il tempo del racconto oscilla tra la casa di Dumas e il Seicento lombardo, i luoghi (Bergamo, Mantova, Venezia) sono visitati con una velocità che non è né di Manzoni né tantomeno di Dumas, compaiono i benandanti, i codici vinciani, un Tramaglino-Mosqueton: troppe cose, troppo interessanti, troppo in fretta.
Ed è un vero peccato, perché ciascuna trovata narrativa di questo, che fatico purtroppo a definire un romanzo, è davvero pregevole. Forse un editing più coraggioso avrebbe suggerito di evitare le glosse a piè pagina per spiegare cose scolastiche (secondo il vecchio e mai invecchiato principio del “show, dont’t tell”), o qualche intervento dell’autrice in prima persona nel corpus del testo.
A difesa di questo libro devo dire che, rispetto alle schifezze uscite quest’anno, c’è nelle pagine di Giaveri una cura raffinata per la parola utile, non enfatica né compiaciuta. Unita alle idee geniali avrebbe potuto darci un capolavoro memorabile. Ci ha invece consegnato un "libriccino" che stuzzica la curiosità, apre infinite porte, suggerisce di indagare ancora alla ricerca di qualche ulteriore corrispondenza. Talvolta basta anche solo questo, però, per consigliare la lettura.
Rubrica a cura del prof. Stefano Motta
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