LIBRI CHE RIMARRANNO/96: Manzoni non è un pettegolezzo. Quattro consigli di non lettura e uno scrigno prezioso da comperare
Nel gennaio del 1983 uscì per Einaudi “La famiglia Manzoni”, di Natalia Ginzburg. Qualche giorno dopo Rusconi pubblicò “Il Natale del 1833” di Mario Pomilio. Il commento di Leonardo Sciascia (non di Stefano Motta: di Leonardo Sciascia) fu questo: «Questa mia impressione non è di pregiudizio, e ancor meno di giudizio, sulle singole cose che quest’anno sono state pubblicate o stanno per essere pubblicate sul personaggio Manzoni: non le ho ancora lette e forse non le leggerò. È un pregiudizio e giudizio sul fenomeno improvvisamente insorgente dell’attenzione al Manzoni personaggio. Fenomeno che, nel suo insieme, non mi piace e che mi pare dovuto a una sorta di pigrizia intellettuale […]. La ragione per cui forse non leggerò mai questi libri sul Manzoni personaggio è che rifiuto, applicato a uno scrittore in genere e al Manzoni in particolare, il gioco dell’immaginazione. Lo considero, in genere, come una specie di tradimento del commensale.»
E si stava parlando di due capolavori.
Cosa dire, allora, della canea di pubblicazioni che in questo 2023, altro anniversario manzoniano, sono uscite? Peggio.
E c’è quello che racconta il prequel dei “Promessi sposi” attraverso il romanzo di cappa e spada del cugino Attilio (Claudio Paglieri, “Il conte Attilio”, Giunti), e c’è quell’altra che sbircia dal buco della serratura e nelle lenzuola delle alcove di Manzoni (Marina Marazza, “Le due mogli di Manzoni”, Solferino), e c’è quell’altra che rifrigge luoghi comuni (Eleonora Mazzoni, Il cuore è un guazzabuglio, Einaudi) in pagine dal patetismo fastidiosissimo (emblematiche quelle sul parto di Giulia Beccaria o quelle sulla presunta conversione parigina di Manzoni!), e quella che ingigantisce la figura di una bambinaia facendola diventare un editor, oltre che una spasimante segreta (Emanuela Fontana, “La correttrice. L’editor segreta di Alessandro Manzoni”, Mondadori), che di questo quartetto alla fine è comunque il libro migliore.
E si stava parlando di due capolavori.
Cosa dire, allora, della canea di pubblicazioni che in questo 2023, altro anniversario manzoniano, sono uscite? Peggio.
E c’è quello che racconta il prequel dei “Promessi sposi” attraverso il romanzo di cappa e spada del cugino Attilio (Claudio Paglieri, “Il conte Attilio”, Giunti), e c’è quell’altra che sbircia dal buco della serratura e nelle lenzuola delle alcove di Manzoni (Marina Marazza, “Le due mogli di Manzoni”, Solferino), e c’è quell’altra che rifrigge luoghi comuni (Eleonora Mazzoni, Il cuore è un guazzabuglio, Einaudi) in pagine dal patetismo fastidiosissimo (emblematiche quelle sul parto di Giulia Beccaria o quelle sulla presunta conversione parigina di Manzoni!), e quella che ingigantisce la figura di una bambinaia facendola diventare un editor, oltre che una spasimante segreta (Emanuela Fontana, “La correttrice. L’editor segreta di Alessandro Manzoni”, Mondadori), che di questo quartetto alla fine è comunque il libro migliore.
L’articolo di Sciascia apparso su “Tuttolibri” e che ho citato all’inizio si intitolava profeticamente “Manzoni non è un pettegolezzo”. E col senno di poi era fin troppo tranciante nei confronti di due lavori, quello della Ginzburg e quello di Pomilio, che sono eccelsi.
Quando Pomilio, una settimana dopo, si difese piccato, aveva ragione:
«Non è affatto mia intenzione entrare in polemica con Leonardo Sciascia per l’articolo Manzoni non è un pettegolezzo apparso su “Tuttolibri” sabato scorso. Sono d’accordo con lui: Manzoni non è un pettegolezzo. […] Se Sciascia vorrà scorrerlo, invece di chiudersi nel suo rifiuto preventivo, si accorgerà che c’è altro da quel che pensa e che il mio tentativo di lettura del Manzoni è un penetrare in punta di piedi attraverso uno dei pochi spiragli che egli consente di aprire sul proprio intimo e di scavare nella sostanza del suo colloquio con Dio, secondo un processo interpretativo che aduna sì alcuni elementi romanzeschi attorno ai pochi dati documentari in nostro possesso ma che alla fine, se non sbaglio, si risolve in un discorso di verità e sia pure di quella verità seconda che scaturisce quando un evento si ribalta in metafora.»
“In punta di piedi”, scrive Pomilio. Con grazia, levità, acume e talento. Quando mi chiedono «Perché scrivi?» rispondo sempre di farlo se e quando ritengo di avere qualcosa di nuovo da dire, o di poterlo dire meglio di quanto hanno fatto altri prima di me. Altrimenti taccio, evitando di perdere tempo io e di farlo perdere, unitamente ai soldi, ai miei lettori.
Quando hanno chiesto scherzosamente a Natalia Ginzburg se l’idea della “Famiglia Manzoni” le fosse venuta in casuale corrispondenza del bicentenario manzoniano lei rispose con candore: «Naturalmente no».
Per questo ritengo che i libri migliori che rispettino questo approccio laterale, in punta di piedi, a Manzoni, rimangano i due romanzi di Isabella Becherucci, “Gli amici di Brusuglio” e di Alessandro Zaccuri “Poco a me stesso”, che abbiamo già recensito su queste pagine e che – ops! – sono usciti nel 2022. Tutto quanto uscito nel 2023 fatica a sottrarsi al sospetto di una furba operazione di mercato di chi, non avendo granché da dire e non sapendolo nemmeno dire bene, ha creduto di sfruttare una data come traino.
Tutto, tranne un libro, preziosissimo, a cura di Pierantonio Frare: A. Manzoni, “Lettere. D’amore, d’amicizia e d’altre cose” (BUR Rizzoli Classici Moderni 2023, 408 pagg., Euro 15,00). Frare ha attinto all’amplissimo epistolario manzoniano, che gli specialisti leggono nei tre corposi e costosi volumi Adelphi a cura di Cesare Arieti più altri ritrovamenti episodici sparsi, e ha offerto in questa edizione per il pubblico più vasto un’antologia di lettere molto belle, che davvero ci restituiscono il ritratto di un uomo oltre il monumento da scrittore in cui è stato forse ingessato. Ma lo fanno dando voce a lui, che sapeva e voleva scrivere. Ne esce un altro romanzo, oltre i “Promessi sposi”, la vita di un uomo, appassionata e divertita, nervosa e drammatica. Sincera, sempre, come Manzoni sapeva essere nelle proprie lettere. Questo sì che è un libro intelligente. Gli altri sono pettegolezzi bislacchi, e scritti persino male.
Alla fine, aveva ragione Sciascia. Nel 1983, con quarant’anni di anticipo sui tempi.
Rubrica a cura del prof. Stefano Motta