Robbiate: Cecilia Colombo conquista i 6248 metri del Kang Yatse II. Quattro mesi prima nuotava alle Mauritius con le balene
Sono le 4 di mattina di domenica 20 agosto quando Cecilia Colombo e i suoi 5 compagni di cordata raggiungono la cima a 6248 metri del Kang Yatse II per godersi un’alba purtroppo nascosta dalle nuvole.
Questa la tappa finale del trekking che la robbiatese ha affrontato tra le montagne del Ladakh, la regione più settentrionale dell’India, tra il 14 e il 21 agosto insieme a 15 compagni di avventura: 2 italiani, 1 ungherese, 2 colombiani e 10 indiani guidati da 3 Sherpa. La ragazza, che negli ultimi mesi si era preparata adeguatamente per aumentare la sua resistenza e affrontare la mancanza di ossigeno, ha concluso il cammino stanca ma soddisfatta. “Sono partita entusiasta e decisa a portare a termine questa prova personale. Speravo andasse bene ma non pensavo così tanto: mi sono sempre sentita in forma sia fisicamente che mentalmente, sono riuscita ad adattarmi alle situazioni estreme ad arrangiarmi con il poco che avevo insieme agli altri membri della spedizione”.
Per otto giorni il gruppo ha percorso gradualmente 76 km, partendo da 3.500 metri di altitudine fino ad arrivare a 6.248, trasportando il proprio zaino, montando ogni giorno la tenda e dividendo semplici pasti tipici della tradizione indiana composti principalmente da riso e legumi preparati nella cucina da campo.
L’avversario peggiore non sono state le temperature, che in questa zona desertica di notte scendono sotto lo zero per poi salire di giorno a 40 gradi percepiti, la stanchezza o gli sbalzi di pressione, bensì le scarse condizioni igieniche e sanitarie che per molti hanno comportato malori e disagi fisici. “Io sono stata fortunata, non mi è venuto neanche un mal di gola. Devo ammettere però che sono sempre stata un po’ schizzinosa e questo viaggio mi ha permesso di superare i miei limiti. Bevevamo infatti l’acqua che arrivava direttamente dai fiumi e il bagno era costituito da un buco scavato nel terreno e circondato da tendaggi per avere un po’ di privacy”.
Camminando per 5 giorni tra le valli secche e aride, Cecilia è potuta entrare a contatto con la popolazione locale che nella capitale Leh è caratterizzata da buddisti e qualche musulmano mentre salendo di quota si limita a monaci tibetani che vivono di sussistenza in solitudine, in agglomerati di massimo tre case che si perdono tra i numerosi monasteri pieni di campane, attorniati da terreni aridi e rocciosi percorsi da fiumi attraversabili su semplici ponti o direttamente scalzi. Pochi i bambini, che rimangono sempre incuriositi dai nuovi arrivati e le donne che però si danno da fare. “Un giorno abbiamo assistito ad alcune di loro che a 4.000 metri d’altezza con un caldo soffocante impastavano il cemento per riparare un ponte rotto. Una scena davvero incredibile”.
Nella giornata di venerdì, raggiunto il campo base a 5.060 metri l’obiettivo era ormai vicino: il Kang Yatse II la vetta innevata più orientale dell’omonimo massiccio. Qui il trekking ha lasciato spazio a un’arrampicata di 3,5 km tra le rocce e il ghiacciaio che separa dalla cima. Dopo un pomeriggio di nevicate, la cordata di Cecilia è partita alle 9 di sera e grazie all’affiatamento e alla preparazione dei 6 componenti la sommità è stata raggiunta dopo 7 ore. “Anche se breve, sicuramente è stata la tappa più impegnativa” ha commentato la robbiatese “abbiamo percorso 1.200 metri di dislivello con una pendenza che in alcuni punti ha raggiunto il 75%, costringendoci ad una lenta avanzata con picozze e ramponi”. In vetta tanta calma e un freddo incredibile, con nubi che hanno parzialmente oscurato i monti circostanti, le catene tibetane e perfino l’imponente K2.
Dopo tanti sforzi ed emozioni la spedizione si è conclusa con un ritorno al campo base e il trasporto a Leh, dove nella serata di martedì con lacrime di soddisfazione e tanti racconti, il gruppo si è sciolto, ognuno custodendo questa avventura nel cuore. “Non so bene come spiegare cosa ho provato, quello che so è che questa esperienza mi ha dato tanto. Ho legato e instaurato nuove amicizie con persone provenienti da diverse parti del mondo ma è stata anche un’occasione per ritrovare me stessa e stare da sola: spesso mi isolavo e mi guardavo intorno, riflettevo sulla mia vita e quello che sarà il mio futuro. Ho potuto scoprire un paese di cui mi sono innamorata visitando Delhi, Jaipur e Agra con il Taj Mahal e esplorando il quasi sconosciuto Ladakh. Per molti l’India è un paese pieno di povertà, degrado e malattie, io ho scoperto un popolo ricco di resilienza, cultura e tradizione”.
La felicità per aver compiuto questa impresa estrema, in un paese così diverso dall’Italia è tanta, così come la voglia di tornare a casa. “E' come se mi fossi distaccata dalla realtà, mi sembra di essere via da una vita. Non vedo l’ora di vedere i miei cari, riprendere il mio lavoro e la ginnastica artistica con l’AS Merate Gym anche se, grazie a questo viaggio, ho acquisito una forza di volontà che sicuramente me ne farà affrontare tanti altri”.
Quattro mesi fa Cecilia si trovava nell’oceano delle Mauritius a nuotare con le balene, ora ha conquistato una montagna di 6.248 metri, non sa ancora dove si spingerà in futuro, di una cosa però è certa: questa spedizione lascerà per sempre un’impronta indelebile nella sua vita.
Questa la tappa finale del trekking che la robbiatese ha affrontato tra le montagne del Ladakh, la regione più settentrionale dell’India, tra il 14 e il 21 agosto insieme a 15 compagni di avventura: 2 italiani, 1 ungherese, 2 colombiani e 10 indiani guidati da 3 Sherpa. La ragazza, che negli ultimi mesi si era preparata adeguatamente per aumentare la sua resistenza e affrontare la mancanza di ossigeno, ha concluso il cammino stanca ma soddisfatta. “Sono partita entusiasta e decisa a portare a termine questa prova personale. Speravo andasse bene ma non pensavo così tanto: mi sono sempre sentita in forma sia fisicamente che mentalmente, sono riuscita ad adattarmi alle situazioni estreme ad arrangiarmi con il poco che avevo insieme agli altri membri della spedizione”.
Per otto giorni il gruppo ha percorso gradualmente 76 km, partendo da 3.500 metri di altitudine fino ad arrivare a 6.248, trasportando il proprio zaino, montando ogni giorno la tenda e dividendo semplici pasti tipici della tradizione indiana composti principalmente da riso e legumi preparati nella cucina da campo.
L’avversario peggiore non sono state le temperature, che in questa zona desertica di notte scendono sotto lo zero per poi salire di giorno a 40 gradi percepiti, la stanchezza o gli sbalzi di pressione, bensì le scarse condizioni igieniche e sanitarie che per molti hanno comportato malori e disagi fisici. “Io sono stata fortunata, non mi è venuto neanche un mal di gola. Devo ammettere però che sono sempre stata un po’ schizzinosa e questo viaggio mi ha permesso di superare i miei limiti. Bevevamo infatti l’acqua che arrivava direttamente dai fiumi e il bagno era costituito da un buco scavato nel terreno e circondato da tendaggi per avere un po’ di privacy”.
Camminando per 5 giorni tra le valli secche e aride, Cecilia è potuta entrare a contatto con la popolazione locale che nella capitale Leh è caratterizzata da buddisti e qualche musulmano mentre salendo di quota si limita a monaci tibetani che vivono di sussistenza in solitudine, in agglomerati di massimo tre case che si perdono tra i numerosi monasteri pieni di campane, attorniati da terreni aridi e rocciosi percorsi da fiumi attraversabili su semplici ponti o direttamente scalzi. Pochi i bambini, che rimangono sempre incuriositi dai nuovi arrivati e le donne che però si danno da fare. “Un giorno abbiamo assistito ad alcune di loro che a 4.000 metri d’altezza con un caldo soffocante impastavano il cemento per riparare un ponte rotto. Una scena davvero incredibile”.
Nella giornata di venerdì, raggiunto il campo base a 5.060 metri l’obiettivo era ormai vicino: il Kang Yatse II la vetta innevata più orientale dell’omonimo massiccio. Qui il trekking ha lasciato spazio a un’arrampicata di 3,5 km tra le rocce e il ghiacciaio che separa dalla cima. Dopo un pomeriggio di nevicate, la cordata di Cecilia è partita alle 9 di sera e grazie all’affiatamento e alla preparazione dei 6 componenti la sommità è stata raggiunta dopo 7 ore. “Anche se breve, sicuramente è stata la tappa più impegnativa” ha commentato la robbiatese “abbiamo percorso 1.200 metri di dislivello con una pendenza che in alcuni punti ha raggiunto il 75%, costringendoci ad una lenta avanzata con picozze e ramponi”. In vetta tanta calma e un freddo incredibile, con nubi che hanno parzialmente oscurato i monti circostanti, le catene tibetane e perfino l’imponente K2.
Dopo tanti sforzi ed emozioni la spedizione si è conclusa con un ritorno al campo base e il trasporto a Leh, dove nella serata di martedì con lacrime di soddisfazione e tanti racconti, il gruppo si è sciolto, ognuno custodendo questa avventura nel cuore. “Non so bene come spiegare cosa ho provato, quello che so è che questa esperienza mi ha dato tanto. Ho legato e instaurato nuove amicizie con persone provenienti da diverse parti del mondo ma è stata anche un’occasione per ritrovare me stessa e stare da sola: spesso mi isolavo e mi guardavo intorno, riflettevo sulla mia vita e quello che sarà il mio futuro. Ho potuto scoprire un paese di cui mi sono innamorata visitando Delhi, Jaipur e Agra con il Taj Mahal e esplorando il quasi sconosciuto Ladakh. Per molti l’India è un paese pieno di povertà, degrado e malattie, io ho scoperto un popolo ricco di resilienza, cultura e tradizione”.
La felicità per aver compiuto questa impresa estrema, in un paese così diverso dall’Italia è tanta, così come la voglia di tornare a casa. “E' come se mi fossi distaccata dalla realtà, mi sembra di essere via da una vita. Non vedo l’ora di vedere i miei cari, riprendere il mio lavoro e la ginnastica artistica con l’AS Merate Gym anche se, grazie a questo viaggio, ho acquisito una forza di volontà che sicuramente me ne farà affrontare tanti altri”.
Quattro mesi fa Cecilia si trovava nell’oceano delle Mauritius a nuotare con le balene, ora ha conquistato una montagna di 6.248 metri, non sa ancora dove si spingerà in futuro, di una cosa però è certa: questa spedizione lascerà per sempre un’impronta indelebile nella sua vita.
I.Bi