Imbersago: la vita dentro e fuori le sbarre con le testimonianze di due detenuti
La mediateca di Imbersago era gremita di persone, che nella serata di lunedì 20 febbraio si sono riunite per conoscere la storia di Luan e Diego, due ex detenuti del carcere di Bollate. A mediare il loro racconto la loro arte-terapeuta Luisa Colombo, e l’avvocata Daniela Fiocchi.
Luisa Colombo, che si porta alle spalle 12 anni di attività di arteterapia in penitenziario e nelle scuole, sa bene quanto il tema carcere non sia facile: “è un argomento delicato ma anche fastidioso perché si considera il carcere come un contenitore di immondizia, di scarti umani. In realtà chiunque lo frequenti per lavoro o volontariato capisce subito che c’è solo da imparare lì dentro. Diffidate di chiunque parli di carcere senza sapere cosa succede al suo interno, dell'odore che ti rimane addosso anche quando si esce da quelle pareti”. La parola è poi passata ai due protagonisti della serata che hanno raccontato il loro percorso.
Luan è un 45enne albanese che ha trascorso 23 anni in carcere e i restanti 10 della sua condanna con sconti di pena. Gli anni in carcere l’hanno riformato ma ciò che l’ha davvero spinto a dare una svolta alla sua vita è stata una telefonata che ha ricevuto da suo padre dopo 10 anni di reclusione, in cui esprimeva la volontà di incontrarlo. La sua vita da reo era infatti iniziata da ragazzino, in un’età in cui suo padre era una figura di grande riferimento. L’emozione di rivederlo era quindi forte, ma il sentimento prevalente era la preoccupazione: era lui che aveva tolto la vita ad una persona, ma era suo padre a pagarne il vero prezzo pur non avendo nessuna colpa. Il padre era una persona conosciuta e rispettata discendente da una stirpe che aveva combattuto gli Ottomani e Luan in cambio aveva macchiato l'onore della famiglia. Non c’era modo di giustificare quello che aveva fatto ma decise comunque di chiedere perdono ai genitori. Luan era in lacrime quando suo padre, che era piccolo di statura ma che per lui rappresentava ancora una figura imponente, lo abbracciò e si scusò per non averlo protetto dalla vita che aveva intrapreso. Fu in quel momento che Luan capì l’amore che la sua famiglia provava per lui, questa era la mancanza che l’aveva spinto a compiere azioni sbagliate e finalmente era giunto alla conclusione che era stato tutto un fraintendimento. Il padre morì una settimana dopo ma da questo incontro Luan trovò la forza per girare pagina e ribaltare la sua situazione.
Valter Cogliati, Luan, Luisa Colombo, Diego e Daniela Fiocchi
Diego è un uomo di 43 anni che si porta sulle spalle 20 anni di galera ma che sta ancora scontando la sua pena in affidamento al territorio. Diego ha iniziato a fare scelte sbagliate a 14 anni, scelte, perché come ha spiegato lui, era totalmente consapevole di quello che faceva, nessuno l’ha costretto, voleva farlo. Non ha avuto un'infanzia infelice, non era una vittima, il suo egocentrismo era più grande di lui e quindi per soldi e noia ha imboccato la strada sbagliata. Questo a dimostrare che il degrado può colpire tutti, a prescindere dalle condizioni di vita, professionali, morali ed etiche. Tutto è cominciato in un parco della periferia di Milano intorno al 1994 dove, conoscendo altri ragazzi che come lui volevano rivendere merci in nero per guadagnare soldi, hanno messo insieme un gruppo che compiva rapine, furti e controllava gli spacci della zona, fino al giorno in cui non sono stati scoperti e Diego è stato trasferito in un carcere minorile. Da quel giorno ha pensato tante volte di farla finita, soprattutto nei periodi in isolamento, quando davvero l’unica persona con la quale ci si può confrontare è se stessi. Diego ha provato imbarazzo, odio, amore nei propri confronti, ha perso la fiducia in se stesso. Oggi però ha raggiunto consapevolezza di ciò che ha fatto e ogni volta che si presenta a questo tipo di incontri, soprattutto confrontandosi con i ragazzi, la vergogna scompare sempre di più. Importante per Diego è stato inoltre incontrare la persona giusta, che per lui è stata Luisa, che pian piano l’ha aiutato ad uscire dal rifugio in cui si era rinchiuso: “da 30 anni avevo il vizio di mettermi il cappuccio per proteggermi, è 3 anni che grazie a lei ho smesso di portarlo”, questo è solo un piccolo esempio dell’aiuto che danno ogni giorno gli operatori dei penitenziari.
L’avvocata Daniela Fiocchi ha dunque spiegato ai presenti l’introduzione dal 2021 dalla riforma Cartabia, che finalmente sta prendendo forma in ambito civile e penale. La riforma ha aperto ad un nuovo metodo nella mediazione penale, un istituto nuovissimo che entrerà in funzione da giugno di quest'anno. Si sta tuttora formando il personale per arrivare a prevenire e aiutare i rei in un percorso per raggiungere il perdono, lo scopo della riforma Cartabia è infatti puntare alla giustizia riparativa. Se ancor prima della condanna si intraprende un percorso educativo cercando di risarcire la persona offesa attraverso una presa di consapevolezza e interiorizzazione del dolore dell’altro, in una riparazione sociale, morale, collettiva e non economica ci sarebbe più sollievo da entrambe le parti. In primis è il criminale che deve accettare il perdono e non la società che solitamente invece viene anteposta. Per ottenere questo risultato si cercherà di veicolare la sofferenza in maniera diversa mettendo in comunicazione il reo con le vittime. Fiocchi ha poi esposto uno studio che ha condotto sulla criminalità minorile in Italia. Si stima che i minori che ogni anno compiono reati in Italia sono circa 30 mila per violenza sessuale, assunzione di sostanze stupefacenti, rapine ed estorsioni. Tanti di questi ragazzi hanno un background di difficoltà nell’ambito sociale o economico, molti però non arrivano da settori disagiati, ma hanno fragilità emotive ed interiori nonostante siano supportati e seguiti. Quello che spinge i bambini a commettere reati è la volontà di autodeterminarsi ed emergere perché si sentono schiacciati dagli standard imposti dalla società. Le manifestazioni di questo disagio partono da atti di bullismo fino ad arrivare al compimento di crimini di grave entità. Luisa spiega che questo comportamento deriva dall’incapacità del gestire le proprie emozioni che con il tempo si traduce in atti irrazionali.
Luisa Colombo ha precisato che questo non deve però portare a punire in maniera scorretta: l’articolo 27 comma 3 della nostra costituzione recita che “le pene devono essere umane e volgere alla rieducazione e al reinserimento del condannato” la pena non è una certezza, non è un deterrente, bisogna prevenire oltre che curare partendo da noi: “quando si menziona il concetto di dipendenza le prime parole che vengono in mente sono droga, stupefacenti, ludopatia. Questo perché cresciamo i ragazzi con i manuali d’istruzione senza dare spiegazioni. In realtà la dipendenza è la cosa più bella al mondo, si è dipendenti dalla famiglia, amici, da una passione, bisogna dare dei termini di paragone, perché dipendenza è anche salutare. Bisogna partire da principi bassi e non dall’alto, altrimenti il problema rimarrà per sempre”.
Significativo l’intervento di Giorgia e Alessandra che hanno illustrato la loro esperienza da tirocinanti in carcere ammettendo che anche loro sono entrate con i pregiudizi e le paure che tutti abbiamo, ma pian piano conoscendo i detenuti, si sono rese conto che da loro possono solo imparare a dare importanza e valore alle piccole cose. Alla fine dell’incontro è intervenuto il sindaco Fabio Vergani che ha ringraziato tutti i presenti, i mediatori, ma soprattutto i due testimoni per averci messo la faccia, azione che ha definito non essere facile in quanto, come esternato da Luan e Diego, il pregiudizio delle persone è la barriera più grande da abbattere insieme all’ignoranza che ogni uomo vuole mantenere sulla situazione di chi sta dietro le sbarre: “Dentro al carcere ci sono persone che pensano molto a quello che succede fuori, mentre quelli fuori pensano poco a chi è dentro”.
Fondamentale rimane sempre il contributo della comunità per garantire un riscatto ai reclusi. Francesca Denti, che dopo una breve esperienza in carcere si è chiesta come nel suo piccolo potesse aiutare, ha creato dei “legami” di creta che metterà in vendita nel suo negozio Namastè in via 25 aprile a Erba per chi come lei volesse contribuire a finanziare i progetti che si attueranno nel penitenziario di Bollate.
I.Bi.