Robbiate: l'arte durante l'Olocausto come terapia e strumento per non dimenicare la bellezza

Arte come terapia e come memoria. Per quest'anno, il comune di Robbiate ha voluto celebrare la Giornata della Memoria in un modo un po' diverso dal solito, organizzando un incontro incentrato sulla correlazione tra l'arte e l'Olocausto, guardando così agli orrori messi in pratica dalla dittatura nazista da un punto di vista inconsueto. I protagonisti della serata sono stati Simona Bartolena e Alessandro Pazzi.

Il sindaco Daniele Villa

 

La prima, storica e critica d'arte, ha intrapreso un vero e proprio "viaggio nella memoria" attraverso le opere dei bambini di Terezin, città della Repubblica Ceca presentata dalla propaganda nazista come un esempio di insediamento ebraico, divenuta dopo il 1940 un vero ghetto in cui concentrare i prigionieri che presto sarebbero stati mandati a morire nei campi di sterminio. Ad accompagnarla in questo intenso cammino è stato appunto Alessandro Pazzi, attore e membro del duo Pontos - Teatro, che ha fatto lettura di alcune testimonianze dirette degli abitanti di Terezin. 
Ad aprire la serata sono state le parole del primo cittadino, Daniele Villa che ha ringraziato innanzitutto gli organizzatori, la vice Antonella Cagliani e il consigliere comunale Gianfranco Brivio. Prima di lasciare spazio ai relatori, Villa ha lasciato un monito, sottolineando come, ancora oggi, non possiamo abbassare la guardia e rimanere indifferenti di fronte a tragedie quotidiane, a frontiere che si chiudono e a muri che si alzano, paragonando l'Olocausto al dramma che vivono ogni giorno le persone che cercano di attraversare il Mediterraneo. 
"Che cosa fa l'arte quando è vissuta in mezzo ad una dittatura?". È stato con questa domanda che Simona Bartolena ha dato il via alla sua spiegazione, accompagnata da un proiettore che mostrava immagini in riferimento alle sue parole. La critica ha aperto la discussione mostrando un acquarello dipinto nientemeno che da Adolf Hitler, che nutriva grandi ambizioni artistiche, dipingendo quadri tradizionali a sostegno della grande arte del passato. "Fin da subito, Hitler e con lui tutti i nazisti hanno combattuto quanto sembrava loro troppo lontano dai propri gusti, ed è per questo che è importante comprendere che rubare una collezione artistica ad una famiglia è un po' come portare via una parte di identità, cancellare la storia e la personalità". Da qui il passo è stato breve verso quella che è stata definita "arte degenerata" (entartete Kunst), che comprendeva tutti quegli artisti e quelle forme che si allontanavano dai canoni e dai gusti del regime, come gli espressionisti, i dada, i cubisti che oggi consideriamo grandi maestri. È qui che nel discorso è entrata gioco Friedl Dicker-Brandeis, donna che con la sua arte è stata in grado di portare ovunque la bellezza, fermamente convinta che l'espressione artistica, in qualsiasi forma, fosse lo strumento più efficace per comunicare il proprio stato d'animo.

Alessandro Pazzi e Simona Bartolena

"Nata da una famiglia ebraica di umili origini, Friedl è da sempre stata incoraggiata da suo padre ad approcciarsi all'arte" ha spiegato Bartolena, raccontando come, ben presto, la donna si sia avvicinata al Bauhaus, scuola avanguardista dove ha modo di confrontarsi con numerosi artisti. "Il Bauhaus verrà chiuso dal regime nazista nel 1933 perchè simbolo di democrazia e libertà, valori che i dittatori disprezzavano e combattevano e valori che Friedl cercherà di ricostruire e trasmettere a chi si ritrovava chiuso nel campo di Terezin". Nel 1942, infatti, la donna viene deportata nel ghetto, dove inizia a insegnare arte ai bambini e ai ragazzi che vi abitavano insieme a lei, creando un vero e proprio laboratorio il cui obiettivo era quello di fare in modo che chi viveva lì non dimenticasse mai la libertà di espressione e la bellezza. Grazie a lei, ha spiegato la critica Bartolena, abbiamo a disposizione una testimonianza importante su cosa provassero e vivessero quei giovani a Terezin. "Friedl Dicker-Brandeis non sopravviverà all'Olocausto - verrà infatti deportata nel campo di sterminio di Birkenau nell'ottobre del 1944 e morirà in una camera a gas insieme a molti dei suoi alunni - ma lascerà ai posteri un ricordo meraviglioso". Centinaia di dipinti fatti da lei e dai bambini, infatti, verranno nascosti con cura in alcune valigie, ritrovate integre solo alla fine della guerra, testimonianza viva e tangibile del periodo vissuto in quello che sarà poi conosciuto come il ghetto dell'infanzia. Se, come ha sottolineato Bartolena, non è mai facile raccontare quanto vissuto e non è facile trovare memorie dirette della vita in un campo di sterminio, altrettanto difficile è dipingerlo. Alternandosi magistralmente con le letture di Alessandro Pazzi, la relatrice della serata ha citato alcuni artisti che sono stati in grado di fare dell'espressione artistica una forma di terapia, come Aldo Carpi - di origini ebraiche, arrestato e deportato a Mauthausen e nominato poi direttore dell'Accademia di Brera - Charlotte Salomon, Zoran Mušič ma anche Alberto Burri, recluso in un campo di prigionia americano in quanto soldato italiano che ha dato voce alla "lacerazione dell'uomo del Novecento", espressa attraverso le ferite nella materia.

Il dipinto di Doris, bimba detenuta a Terezin

A chiudere la serata, prima dell'ultima lettura, è stato quello che forse è il più famoso tra i disegni lasciati dai bambini di Terezin, che rappresenta una farfalla gialla, da sempre simbolo di bellezza e libertà, in grado di volare oltre ogni filo spinato, per noi un monito perchè quello che è stato non accada mai più. 
G.Co.
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