Saturimetri a 70 euro, mascherine a 16 euro. La spesa per la sicurezza si fa insostenibile

Saturimetri il cui costo medio è di 30 euro venduti a 70, mascherine tipo FFP2 vendute a 16 euro, ma spesso anche di più; mascherine FFP3 che in un caso è costata 70 euro e in altri 50 euro. E poi una valanga di produttori più o meno improvvisati – a volte con finalità benefiche – che traggono mascherine da tessuto non tessuto con un elastico dal costo non superiore a 50 centesimi, vendute a 2 euro.
Basta andare per farmacie e navigare nella rete per trovare offerte di ogni tipo. Offerte con prezzi astronomici che assicurano a chi vende, in tempi dove dilagano malati e morti, altissimi guadagni.
Noi stessi abbiamo effettuato acquisti random, girando non solo tra le farmacie del meratese ma spingendoci fino a Trezzo e Carugate. Ma il malcostume non cambia. E la spesa sostenuta è stata decisamente elevata (con scontrini a riprova).
Le ultime FFP2 le abbiamo acquistate a 16 euro l’una. La spiegazione è sempre la stessa: sono i produttori ad aver alzato il prezzo e noi farmacisti non possiamo fare altro che adeguarci.
Sembra di vivere una fase di normalità di mercato dove il prezzo lo formano esclusivamente la domanda e l’offerta. E, siccome quest’ultima è insufficiente a soddisfare la prima, in costante crescita, ecco che i prezzi schizzano alle stelle.
Nessuno, del resto, a partire dai comuni, ha messo in campo valide iniziative per cercare di accaparrarsi stock di mascherine e guanti monouso da mettere poi a disposizione dei cittadini, meno abbienti, quelli impossibilitati a comperare una mascherina a 16 euro che, peraltro, nella migliore delle ipotesi assicura una difesa per 24-48 ore e poi va cambiata.
Forse accanto ai controlli sulle strade, pure sacrosanti, sarebbe necessario effettuare acquisti a sorpresa da parte di agenti in borghese per verificare se davvero sulle bolle di consegna del fornitore  dei dispositivi di protezione individuale i costi reclamati dai produttori giustificano i prezzi applicati all’utilizzatore finale.
Questa situazione andrà avanti ancora a lungo, presumibilmente. E’ sempre più costoso, anche per chi qualche possibilità economica l’ha, sostenere l’onere della messa in sicurezza propria e degli altri operando un primo controllo personale mediante l’uso del saturimetro (pulsosimmetro) che misura il grado di saturazione dell’ossigeno nel sangue e determina la frequenza cardiaca, del normale termometro digitale, anche lui dal costo ormai stellare, delle mascherine e dei guanti monouso.
L’impreparazione di Stato e Regione di fronte a una emergenza i cui contorni erano noti a metà gennaio si palesa proprio con la mancanza dei dispositivi di base. E poi ci sono i tamponi, o meglio i laboratori che analizzano i tamponi. Il loro numero è del tutto insufficiente a sodisfare almeno la domanda che viene dal personale sanitario che, per quanto ne dicano Fontana e Gallera i quali si appellano alle indicazioni dell’ISS, devono, nell’interesse di medici e infermieri e in quello dei pazienti, sottoporsi periodicamente al tampone se non vogliono essere essi stessi veicolo di contagio.
Il Veneto l’ha capito e Zaia riesce a fare il quadruplo dei tamponi della Lombardia. Un altro elemento sul quale si dovrà riflettere a pandemia finita. Assieme a quello più clamoroso della riduzione vergognosa del servizio pubblico portata avanti con ignominia per 25 anni, a favore di un privato, che agisce con regole da privato ma grazie all’accreditamento gode del finanziamento pubblico.
E infine si dovrà ripensare all’organizzazione territoriale, perché gravare esclusivamente sugli ospedali significa mettere in crisi il sistema, stressare il personale e, a volte, non essere in grado si dare una risposta a chiunque abbia bisogno di assistenza.
Claudio Brambilla
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.