7. I CUSCINI FELICI

Dieci novelle in dieci dì al pc dette

7. I cuscini felici

Te mando un beso con el viento
y sé que sientes,
te das la vuelta sin verme, pero yo estaré allí.
(Pablo Neruda)



Tornava la sera tardi, e i bambini erano già a letto. Lui era abbastanza bravo e in questi giorni ci aveva “preso la mano”, come si dice, tra biberon, pappe, e pannolini. Per quelli ci aveva fatto ormai anche il naso, non so se mi spiego.
Lui faceva un lavoro diverso da lei, e poteva riuscirci anche da casa. Al massimo ogni tanto i gemelli avevano smania di comparire in videoconferenza con qualche loro cameo, e allora anche i colleghi del papà facevano la conoscenza dei due pargoli urlanti. Simpatici, ma urlanti.
Lei aveva sempre voluto fare il medico, e il suo lavoro le piaceva, anche in questi giorni in cui stavano combattendo contro un’insidia invisibile, sfuggente, proprio per questo più pericolosa. Il suo era un lavoro che non si poteva fare da casa, dal computer, perché non si cura la malattia, si curano le persone, e le persone sono carne, ossa, respiri, lacrime e sorrisi.
Quella specie di virus che adesso li allarmava tutti prendeva proprio il respiro, e lei lavorava tutto il giorno con il costume e la mascherina anche se non era mica un supereroe. Quello che le pesava più di tutto non era il non potersi grattare il viso, gli occhi, le tempie irritate dall’elastico della mascherina che ormai aveva in faccia di continuo. Non era nemmeno il dover tener la pipì all’inverosimile, che ora che si svestiva da tutto quel catafalco che aveva indosso faceva in tempo a rimandarla indietro. Era il non poter dare un bacio ai gemelli.

Si erano raccomandati in tutti i modi: niente contatti ravvicinati. Questo virus era campione di salti, e bastava uno starnuto, un respiro, un abbraccio, un bacio, perché lui si divertisse a volare come un trapezista del circo da una parte all’altra del tendone, da una persona all’altra. Ecco perché lavorava vestita come Catwoman, ma in verde. Una specie di Tartaruga Ninja con la mascherina non sugli occhi ma su naso e bocca.
Il ritorno a casa, nelle settimane prima così tanto desiderato, era adesso il momento più difficile. Come spiegare ai gemelli che le gattonavano incontro voraci di latte e di baci e del profumo della sua pelle e dei suoi seni caldi che no, che dovevano stare a un metro di distanza, perché altrimenti il virus pum! gli sarebbe saltato addosso? Che lei non ce l’aveva, ma non si sa mai.
Per questo si fermava sempre un po’ di più nel Grande Ospedale giù in Città, a scambiare una parola con le infermiere, a controllare ancora una volta la flebo del signor ***, che forse ce la stava facendo, a cercare nel parcheggio la macchina, fingendo di non sapere dove l’avesse parcheggiata. E qualche volta era anche vero, stanca morta come era. Perdeva tempo apposta non perché non avesse voglia di vederli, loro e suo marito, ma perché sapeva che non le avrebbe retto il cuore a doverli tenere lontano. Per questo faceva di tutto per arrivare a casa quando lui li aveva già messi a letto.
Si fermava sulla soglia della cameretta e mandava a lui con la mano due baci, come quando erano fidanzati e glieli mandava col telefonino, nei tempi preistorici in cui si usavano ancora gli sms: “ti mando un bacio, da lontano: mettilo sotto il cuscino, per quando nei sogni ci incontriamo”, gli diceva.
“Ti mando due baci per i bambini”, gli diceva adesso schioccandoglieli nel pugno e lanciandoglieli come un lanciatore di baseball. E lui faceva finta di afferrarli al volo, uno a destra e uno a sinistra, e stringerli nel pugno con la stessa serietà con cui un prestigiatore stringe l’aria e tutti credono che sia chissà cosa. E poi li infilava sotto il cuscino dei gemelli, uno per uno. Le bocche semiaperte a forma di “o”, facevano i soliti versi seri e scontrosi dei bambini, e si giravano dall’altra parte. Anche i cuscini tremolavano un po’, perché sapevano di custodire un tesoro.
È ben strano un amore che per essere vero deve essere lontano. È più vero un amore che ha in mente il futuro.
Stefano Motta
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