Merate: il ricordo della strage di p.za Fontana del circolo PD. Dalle analisi politiche alle reazioni, fino al populismo di oggi

Può un episodio accaduto 50 anni fa esatti, come la strage di piazza Fontana a Milano, essere utilizzato per giustificare certe dinamiche politiche e sociali presenti ancora oggi nelle nostre comunità? Sì secondo tre giovani studenti di scienze politiche dell'Università Cattolica e un professore di storia del Liceo Agnesi di Merate, intervenuti durante l'incontro ''Una bomba alla democrazia'' organizzato nella serata di mercoledì 11 dicembre dal circolo PD meratese in occasione dell'anniversario di quel terribile attentato in cui persero la vita 17 persone e che il 12 dicembre di cinquant'anni fa colpì il capoluogo lombardo e con esso l'Italia intera, segnando l'inizio dei cosiddetti ''anni di piombo''.

Da sinistra: Gino Del Boca, Alessadro Calasso, Federico Dusi, Enrico Bianchi ed Eleonora Maria Belenghi

Può se viene analizzato il contesto politico e parlamentare dell'epoca, se si racconta nello specifico che cosa accadde quel giorno, tra Milano e Roma (dove ci furono altri due attentati simili, ma meno devastanti), se si ricordano le reazioni degli italiani e i giorni successivi per, infine, paragonare tutto ciò al valore che viene attribuito oggi alla democrazia. Quattro relatori e quattro modi diversi di raccontare la stessa storia, per rispondere alla stessa domanda posta all'inizio.

Il professore dell'Agnesi Alessandro Calasso

Primo ad intervenire è stato Alessandro Calasso, professore del Liceo Agnesi, guida in un excursus storico che ha accompagnato il pubblico presente nella sala civica ''Fratelli Cernuschi'' a definire il contesto politico di quegli anni. ''Episodi come la strage di piazza Fontana non devono essere letti come punti fermi nella storia, ma inquadrati in una cornice molto più vasta'' ha spiegato. ''Ciò che rischiamo, altrimenti, è di inciampare in supposizioni, illazioni e tentativi di giungere ad una verità anche se molti aspetti rimangono avvolti nel mistero. Il contesto storico in cui dobbiamo collocare questa strage parte da una situazione di democrazia bloccata, quella del dopoguerra. Dal '47 al '63 un pezzo della politica italiana rimane di fatto estromessa dal governo e rilegata in maniera sistematica all'opposizione. In maniera ideale anche in Italia si combatte la Guerra Fredda. Qui abbiamo il più significativo partito comunista d'Europa, dal punto di vista numerico. Quella combattuta nel '48, fu una battaglia elettorale epica, che la sinistra perse, forse perché troppo appiattita dall'Urss, contro una Democrazia Cristiana sostenuta dagli Stati Uniti e dalla chiesa''. Gli anni che seguirono a quelle elezioni, ha proseguito il docente, segnarono un periodo di politica dell'austerità in Italia, mentre altrove, come in Gran Bretagna, i laburisti costruivano le basi di una statalizzazione molto estesa, che coinvolse banche e settori come il siderurgico e la sanità.
''Mentre in Inghilterra si costruiva il cosiddetto ''welfare state'' - ha proseguito Calasso - in Italia venivano avanzate politiche di compressione salariale. Fu l'unica soluzione che trovò la politica per rendere più funzionale il sistema economico e rendere competitive all'estero le nostre merci. Quando parliamo di miracolo economico italiano, parliamo di quelle strategie. Strategie che non potevano reggere a lungo, ma che portarono il sistema ad appoggiarsi ad un'economia agricola ad una più industriale. Città come Torino passarono da 700mila ad oltre un milione di abitanti, ed erano tutti immigrati del sud saliti per lavorare. Quando nel '53 De Gasperi uscì d scena emerse un gruppo nella Dc più di sinistra, composto tra gli altri da Moro, Fanfani e La Pira, che attuarono politiche riformiste più incisive, a livello sociale ed economico''.

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Determinante, secondo Calasso, fu l'istituzione del ministero delle partecipazioni statali. A questo proposito, il docente dell'Agnesi ha parlato del manager Enrico Mattei, che si distinse negli anni '50 per la creazione di Eni e la spinta che ebbe l'azienda sull'economia italiana. Molto vicino alla sinistra della Dc, Mattei rimase vittima in un incidente aereo che nel 2012, attraverso un processo collegato alla vicenda della sparizione del giornalista Mauro De Mauro, il quale indagava proprio sulla morte del manager di Eni, fu stabilito che si trattò di un attentato. ''Nella politica di quegli anni, come insegna il successo che ebbe Mattei, il quale si scontrò con gli interessi di corporazioni internazionali e per questo fu ucciso, pesava molto l'interesse pubblico'' ha proseguito Calasso.
''Nel '63 le elezioni vinte da un'area della Dc molto più moderata e le politiche progressiste e riformatrici di quegli anni ebbero un ridimensionamento. Da lì in poi le tensioni e le radicalizzazioni crebbero a dismisura. I sindacati ebbero un ruolo sempre più importante, legato anche alle contestazioni studentesche del '68 che in qualche modo coinvolsero anche il mondo operaio. Nel '69 parliamo dell'autunno caldo. La massa operaia, composta da una forte componente di emigrati del sud con scarsa qualifica e un salario bassissimo, spesso residenti in un contesto abitativo urbano molto degradato, incomincia a rivendicare qualcosa caratterizzato da una certa radicalità. Sono gli anni in cui è possibile immaginare un'alternativa, gli anni in cui i valori della famiglia cambiano, in cui c'è più scolarizzazione e anche il ruolo delle donne nella società assume una connotazione diversa. Sono gli anni delle elezioni democratiche vinte in Cile da Allende, gli anni in cui Berlinguer parla del compromesso storico e pensa ad un'alleanza del fronte riformista, aperto non solo al Partito Comunista e ai socialisti, ma anche alla sinistra della Dc''.   Ed è in questa cornice, ha concluso il professore, che va letto l'avvio della strategia della tensione.

Federico Dusi, studente di Scienze Politiche dell'Università Cattolica di Milano

Una cornice alla quale Federico Dusi, il primo dei tre studenti intervenuti durante l'incontro, ha aggiunto ulteriori elementi descrivendo la situazione del Parlamento di allora, alle prese con il secondo governo di Mariano Rumor e una presenza ''ingombrante'' seppure poco significativa dal punto di vista dei numeri come quella del Movimento Sociale Italiano, che contava in tutto 24 parlamentari. ''Non si può comprendere la strage di Piazza Fontana senza parlare del '68'' ha proseguito Dusi. ''In tutto il mondo e in Italia ci fu un vero e proprio rovesciamento dei valori culturali. Quello Stato non veniva più riconosciuto e finirono in discussione la famiglia, la scuola e il lavoro. Ma per tenere in piedi la nostra marionetta dobbiamo tenere in mano due fili insieme. Uno, l'idea che oggi il terrorismo non può essere un dato accettato. Per quanto siamo in grado di condannarlo, oggi non provoca più lo stesso smarrimento di un tempo e socialmente è come se avessimo preso atto che può succedere. Dall'altra dobbiamo considerare che le forze parlamentari contano, ma fino ad un certo punto. In certi periodi storici, come questo che stiamo analizzando, ci sono movimenti che contano e sanno come farsi sentire. Il 25 aprile, l'8 e il 9 agosto di quell'anno, il 1969, ci furono altre esplosioni. Come in Fiera a Milano, una bomba che non servì ad uccidere ma avvisare. Così arriviamo alla strage di quel 12 dicembre di 50 anni fa. E' un venerdì come tanti che viviamo anche noi. Un fine settimana in cui non si vede l'ora di dimenticarsi delle preoccupazioni. E ad un certo punto arriva l'esplosione. Uno scoppio devastante e improvviso. Per la prima volta è chiaro che l'episodio è un attentato terroristico. Ci sono 14 morti, che diventeranno 17, e 88 feriti''.

L'Italia, ha proseguito Dusi, in quel momento sentì di avere bisogno di trovare un nemico. E fu per questo, secondo lo studente della Cattolica, che le ipotesi dei responsabili furono due, opposte. ''Qualcuno disse che il ruolo centrale fu di Lotta Continua - ha proseguito - un movimento che di certo non ha mai disdegnato la violenza e che dopo il '68 stava tornando a vivere un certo vigore. Si dimostrò poi che le figure di questa area non c'entravano nulla. Lotta Continua, invece, vide a sua volta due nemici. Da una parte lo stato, con la convinzione che addirittura Saragat fosse a conoscenza dei mandanti. Ma la pista che nel 2005 si rivelò quella giusta, fu la pista nera''. Gianni Ventura e Franco Freda, che facevano parte di Ordine Nuovo, furono dichiarati colpevoli rispetto ad un reato per cui nell''87 furono invece assolti.  

Eleonora Maria Belenghi, studentessa di Scienze Politiche dell'Università Cattolica di Milano

A ricordare, invece, quali furono le reazioni post strage è stata Eleonora Maria Belenghi, altra studentessa di scienze politiche della Cattolica. ''Si tratta di eventi che, in qualche modo, fermano il tempo'' ha spiegato. ''Una delle frasi che più mi ha colpito è quella di uno dei primi testimoni che disse: 'Sento di colpo i piedi umidi, mi è entrato il sangue nelle scarpe. Quella strage generò una febbre emotiva in contrasto con il periodo natalizio che invadeva Milano, tanto che la popolazione si lanciò alla disperata ricerca di un colpevole. Il 13 dicembre il Ministero dell'Interno ricevette una serie infinita di telegrammi espressivi di una parte ampia di popolazione. Le Officine di Legnano, ad esempio, scrissero una missiva firmata da tutte e 4mila le maestranze che vi lavoravano. La società di allora era molto più schierata politicamente di oggi e si potevano distinguere tre reazioni. Ci fu quella dell'area centrista conservatrice, focalizzata sull'orrore della strage che veniva ascritta alla predicazione della violenza che caratterizzava quel periodo. Ci fu la ferma reazione della sinistra parlamentare, dei sindacati di confederazione che indicavano come colpevole la destra estrema. E poi ci fu la componente reazionaria come, ad esempio, un gruppo di unionisti di Messina che il 13 dicembre girò la città con un altoparlante da cui diceva che la guerra civile era incominciata, definendo assassini i comunisti''.

In questo contesto, ha spiegato Belenghi, si fecero largo anche i migliori sentimenti delle persone. ''C'è ad esempio il racconto di Michele Priore, uno dei primi testimoni della strage, un sottoufficiale che in quel momento stava passando in tram in Piazza Fontana. L'esplosione avvenne proprio in quel momento e lui chiede all'autista di farlo scendere. Raccontò però di essersi immediatamente pentito perché si ritrovò di fronte una visione infernale. Disse che un uomo senza braccio gli andò incontro e fu sul punto di fuggire. Poi però tirò fuori il migliore sentimento di umanità e si ferma a prestare aiuto. Disse: 'Il mio non è stato coraggio, ma un atto di pietà umana'. Non possiamo, infine, non ricordare il momento dei funerali. Vi presero parte in 150mila, un tappeto nero che quel giorno non pensò alle divisioni politiche, ma solo a commemorare i morti. Ci fu una signora di Genova che disse di essere venuta non per curiosare, ma per piangere con i milanesi. E poi un italiano che viveva in Olanda a cui fu chiesto come mai era tornato in patria per quella occasione, e disse che quel giorno non sarebbe potuto essere da nessun'altra parte''.  

Enrico Bianchi, studente di Scienze Politiche dell'Università Cattolica di Milano

Dopo aver toccato le corde delle emozioni, è toccato al terzo studente intervenuto, Enrico Bianchi, il compito di riportare il dibattito su binari più materiali, quasi scientifici, analizzando quello che è lo stato di salute oggi della democrazia. ''Faccio una premessa di tipo metodologico'' ha spiegato.
''Le tesi che presento sono tesi accademiche e perciò falsificabili. Si può essere d'accordo o muovere obiezioni. Non sono il vangelo ma spunti di riflessione. Quello che possiamo chiederci oggi è come sta la nostra democrazia. Piace a tutti? Tutti sono convinti che la democrazia sia il modo migliore per stare insieme o ci sono delle alternative?''. Bianchi si è affidato alle considerazioni che il politologo Yascha Mounk nel suo libro ''Popolo vs. Democrazia'', partendo dalla definizione che il tedesco-americano dà di democrazia liberale: un sistema che tutela i diritti individuali e traduce le opinioni del popolo in politiche pubbliche. ''E' la politica che, per esempio, caratterizzò il governo Thatcher, che attivò certe politiche economiche che esprimevano ciò che la maggioranza degli inglesi pensavano'' ha proseguito lo studente. ''Ma tutti siamo veramente convinti che questa sia la migliore forma di governo? Mounk espone nel suo libro i dati di un sondaggio in cui viene evidenziato che tra i nati negli anni '30 e i nati negli anni '80, in America, c'è una grande differenza. L'apprezzamento alla democrazia cala sempre di più. In Italia sappiamo che circa il 67% dei cittadini preferisce la democrazia. Ma dal 2008, anche da noi, questa percentuale è sempre in calo. E' dagli anni '70, a dire il vero, che si parla di crisi della democrazia, anche con riferimento alla nascita della violenza politica. Secondo Mounk, l'elemento di sfida a questo sistema è il populismo, in forte contrapposizione con la tecnocrazia del liberalismo, visto come un sistema in cui sempre più decisioni vengono attribuite alle istituzioni e non dettate da un controllo del sistema elettorale. Mounk si chiede se il populismo sia una forma di democrazia illiberale''.

Oggi ci troviamo in un contesto di grande affermazione dei partiti populisti, ha proseguito Bianchi, con la salita la potere di Trump negli Usa e l'arrivo del governo giallo-verde in Italia, il primo definito populista salito al potere in uno degli Stati fondatori dell'Ue. ''Il populismo si afferma - ha spiegato lo studente della Cattolica - perché propone soluzioni semplici e allo stesso tempo drastiche, perché parla alla gente comune secondo la quale bisognerebbe fare decidere alla gente che frequenta il bar piuttosto che pensare a soluzioni di tipo tecnico-scientifico. Il populismo lavora su quello che definiamo il monopolio morale della rappresentanza. Il leader populista dice: solo io rappresento il popolo, e se io lo rappresento gli altri perseguono solo interessi personali che rispondono a chissà quali organizzazioni. Ecco perché ci sono esperti che lo definiscono un rischio per la democrazia. Perché se parliamo di democrazia rappresentativa, sappiamo che ci sono istituzioni di bilanciamento della volontà del popolo. E i populisti rischiano di essere sofferenti a questi sistemi di tutela istituzionale, perché credono che impediscano l'espressione del popolo. Quello che invece fanno le istituzioni, ad esempio, è tutelare le minoranze. Il populismo cerca invece sempre dei nemici contrapposti per scaricare su qualcun altro, talvolta, colpe proprie''.
Quello fornito, ha concluso, è stato uno spunto per prendere atto che la democrazie fosse in pericolo negli anni della strategia della tensione. Ciò che ora rimane da chiedersi è se ci riteniamo sostenitori di una democrazia liberale, cosa rischiamo con chi non porta avanti quei valori e quale futuro ci attende se gli ideali che hanno spinto certi movimenti ad ideare la strage di Piazza Fontana continueranno a tornare di moda.
A.S.
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