Verderio: Simone Tognetti, 30 anni è uno chef ''giramondo''. Dalla cucina di nonna al tonno preparato per Angela Merkel

Dalla cucina di nonna alle collaborazioni con chef del calibro di Carlo Cracco. Che i fornelli fossero il suo habitat naturale, Simone Tognetti lo aveva capito sin da bambino osservando la nonna cucinare ogni giorno per tutti i dipendenti della ditta di famiglia, a Verderio, e poi lo ha constatato nell'estate del passaggio dalle medie alle superiori, lavorando in un ristorante vero e proprio. Cinque anni all'istituto alberghiero Olivetti di Monza e poi tanta, tanta gavetta in giro per il mondo. Le prime esperienze di alto livello al Devero Hotel di Cavenago alla corte di chef stellati e poi via verso Parigi, Portogallo, Brasile, Panama, Bermuda, Australia e, tra le altre tappe, anche La Gomera, un'isoletta delle Canarie dove gli è capitato di cucinare per Angela Merkel, non proprio una cliente qualunque, per la quale preparò piatti solo a base di tonno appena pescato. In tutto ciò è riuscito persino a lavorare sullo yacht di una delle persone più potenti della Russia, ''spadellando'' in navigazione tra l'Atlantico e il Mediterraneo, e aprire dei suoi ristoranti in Vietnam e ad Instanbul, collaborando ad aperture di locali anche tra Grecia e Russia. Ma non finisce certo qui l'elenco delle esperienze che hanno impegnato in questi anni lo chef giramondo Tognetti, ideatore insieme ad altri otto colleghi del progetto ''Essere Umami'', una sorta di ristorante ''mobile'' che collabora in peering (termine che deriva dalle connessioni peer to peer nelle telecomunicazioni) con strutture alberghiere, lounge bar o anche altri ristoranti. E' grazie a questo progetto che Tognetti ha collaborato con Cracco nella cucina di Hell's Kitchen, durante l'ultima stagione estiva presso il Forte Village in Sardegna. Un sogno diventato realtà, insomma, quello del 30enne partito una decina di anni fa da Verderio, il paese in cui è cresciuto, affermatosi pian piano come chef di alto livello. Ad attenderlo adesso è una nuova sfida, in Danimarca. Dove aprirà un locale che sarà per metà pastificio con produzione a vista e per metà ristorante ad Århus. Trattandosi di un verderese, abbiamo chiesto a chef Tognetti di spiegarci qual è il suo segreto, come è riuscito ad arrivare al suo livello a 30 anni e dove vorrebbe ancora spingersi.

Simone Tognetti

Come ti sei avvicinato alla cucina e quale è stato il momento in cui hai capito che nella tua vita avresti fatto lo chef?  
Alla cucina mi sono avvicinato molto giovane. Ero molto attratto dai profumi che arrivavano dalla cucina di mia nonna. Era un continuo domandarle che cosa stesse preparando e come. Lei spesso mi metteva alla prova. Arrivai all'età di 12 anni che sapevo già fare non dico un fondo perfetto di carne, ma un buon risotto sì. Fino ai 17, però, avevo in testa più che altro il calcio. Me la cavavo abbastanza tanto che arrivai a giocare nella primavera del Lecco. Quel sogno si interruppe però durante un torneo di Viareggio a causa di uno scontro in cui mi giocai il ginocchio. Ripresi qualche mese dopo nel Merate in Serie D, ma mi accorsi di non essere più lo stesso. Mi convinsi allora che nel calcio non avrei mai sfondato, tanto ci riesce solo uno su un milione, e fu allora che capii che il mio futuro sarebbe stato nelle cucine. Sapevo già che questo lavoro avrebbe fatto per me.  

Hai da subito puntato molto in alto, visto il tuo curriculum...  
Non mi è mai pesato di sacrificare i sabati e le domeniche, oppure lavorare durante le feste. Nei primi otto anni del mio lavoro ho accumulato diverse esperienze in tutto il mondo (la maggior parte di queste sono state citate prima, ndr), tutte in ristoranti stellati dove si lavora almeno 15 ore al giorno. Diciamo che ho sempre avuto un bel passo in cucina e sono stato in qualche modo agevolato dalle conoscenze che mi ha passato la nonna. Non è da tutti a 15 anni sapere, ad esempio, come si abbina ad un determinato piatto una determinata mostarda.  

Che cosa ti ha spinto a partire?  
Le possibilità per lavorare solo in Italia le avevo. Però ero troppo curioso di vedere il mondo e avevo messo da parte un budget sufficiente per partire. Desideravo lavorare in locali di alto livello. Sono partito da casa con 800 euro e prima di ricevere lo stipendio rimasi quasi senza soldi. Poi arrivò e da lì ho capito che quella era via giusta. La prospettiva economica è stata determinante, in questo senso, perché all'estero è indiscutibile, si guadagna di più.  

Qual è l'esperienza che più di tutte le altre ti ha migliorato?  
Quella del NoLita di Parigi con lo chef Vittorio Beltramelli, sugli Champs-Elysees. E' lì che ho preso la vera impostazione. Beltramelli ci teneva molto a me e per questo era piuttosto rigido. Ha investito tanto tempo nella mia formazione e da lui ho preso delle belle sgridate. Ma in quella cucina, dove ho lavorato tra i 19 e i 20 anni, sono cambiato. Ad aiutarmi, più in generale, è stata la mia determinazione, che in alcune occasioni mi è servita per non farmi intimorire da certi colleghi, e la voglia costante di imparare quello che ancora non sapevo dagli altri.  

Quanto hanno influito i luoghi in cui hai lavorato nell'evoluzione dei tuoi piatti?  
Ho imparato tecniche nuove dovunque. C'è da dire che in tutti i Paesi gli elementi principali della cucina locale sono piuttosto simili tra loro. Noi italiani crediamo di avere l'esclusiva di molti piatti, però anche nei paesi asiatici hanno la polenta, ad esempio, solo che la loro è un piatto sempre a base di farina di mais molto più liquida. Viaggiare mi ha aiutato ad ampliare la mia conoscenza di prodotti, una cosa fondamentale per chi fa il mio mestiere. La cultura culinaria asiatica è quella che mi ha dato di più in questo senso.  

Qual è, a tuo avviso, il miglior piatto che tu abbia mai concepito?  
Non ce n'è solo uno, ma posso parlare del piatto che più mi rappresenta in questo momento. E' un tataki di manzo. Per prepararlo serve innanzitutto una carne ben marmorizzata con quella del Kobe, che viene fatta marinare con una salsa teriyaki fatta in casa. Come abbinamento abbiamo una purea di pastinaca rossa fermentata e una crema di sedano e rapa fermentati con radici croccanti di pastinaca bianca a cubetti, sempre fermentata, con meringa di porcini e polvere di Shiitake, purea di aglio nero e fondo di manzo con riduzione di salsa di soia, arricchito con erbe selvatiche.  

C'è un piatto ''semplice'' della tradizione italiana che ancora ami cucinare?  
Sicuramente il risotto. Quando lo faccio innanzitutto non riesco mai ad avere fretta e quasi mi rilasso, cucinando con il sorriso sulle labbra per 15 minuti. La cosa bella è che si può fare in centinaia di modi diversi, ma l'importante è essere bravi a bilanciarlo. Ne ho fatto uno con succo d'arancia curry e tartare di tonno di recente per una cena tra amici. Quando ho detto loro di comprare il succo per il risotto mi hanno preso per pazzo, poi non si capacitavano di come avessi fatto a farlo così buono.    

Che genere di locale sarà quello che aprirai in Danimarca? 
In questo progetto ci distacchiamo dalla ristorazione stellata, mantenendo comunque la qualità eccellente del prodotto. Sarà un ristorante con pastificio a vista. Faremo pasta con una farina di una forza specifica che abbiamo ricercato noi, in quasi tutti i formati, e le serviremo con salse gourmet dove spiccherà soprattutto la cremosità. Utilizzeremo addensanti naturali e prodotti al 100% italiani. Non avremo camerieri e ciò ci aiuterà a eliminare alcuni costi superfui e fare un nuovo tipo di ristorazione. Il piatto lo prenderanno dal pass direttamente i clienti. E' l'evoluzione di molti locali. Offriremo acqua naturale e frizzante e speriamo di raggiungere tra i 300 e i 400 coperti a mezzogiorno e i 200 la sera, dove vorremmo prendere noi le ordinazione ai tavoli. Puntiamo ad aprire una catena che si chiamerà ''Prego''.  

Lo chef verderese Tognetti con Carlo Cracco

C'è un consiglio che ti senti di dare ai giovani che aspirano ad entrare nel mondo dell'alta cucina?  
Quello che posso dire è che una strada giusta, nel mondo della ristorazione, non esiste. Esiste una strada fatta di tanti sacrifici. Poi è chiaro che solo in ristoranti di alto livello si impara davvero che cosa significa cucinare. Rivolgendomi ai più giovani, fare lo stage nel ristorantino serve a poco. Meglio puntare alla luna ed è probabile che si arrivi anche alle stelle.
A.S.
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