Sei sfumature di giallo per una estate fatta di ''libri''

Scriveva G.K. Chesterton, il padre di Padre Brown, che leggiamo libri gialli perché ci piace sentirci scemi. Voglio dire: ogni volta che leggiamo un romanzo giallo è come se ingaggiassimo una gara di bravura, intelligenza, acume e attenzione non con l’investigatore protagonista del racconto, ma con l’autore stesso. E puntualmente arriviamo all’ultima pagina sconfitti. I lettori di libri gialli si riconoscono per il segno delle cinque dita sulla fronte, di chi si dice rumorosamente: “che asino che sono stato: era quel particolare lì: ma la prossima volta…!”, e corrono a comprare il nuovo libro dell’autore preferito, sapendo già in partenza che perderanno ancora una volta, ma beandosi di questo. Che delusione quelle storie in cui il colpevole è già chiaro a metà libro!
Tra il giallo del sole e quello della sabbia, l’estate ha anche il colore di questo tipo di narrativa: se controllate le statistiche dei prestiti bibliotecari scoprirete – se mai ce ne fosse stato il dubbio – che d’estate Agatha Christie tira più di Proust, e Jeffrey Deaver assai più di Pasternak.
Dopo l’infornata di novità che proponevo lo scorso giugno CLICCA QUI, attingo qui, per la seconda parte dell’estate, a titoli “da biblioteca”, non necessariamente freschi di stampa, magari un po’ inusuale eppure niente affatto invecchiati dal tempo.
Se amate i gialli non potete mancare Eric Ambler, “Epitaffio per una spia”, di Adelphi. Morto nel 1998, Ambler è stato lo sceneggiatore di “Topkapi” e ambienta questo romanzo sulla Costa Azzurra, nel 1938, un anno prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Josef Vadassy, timido insegnante vittima di un fortuito scambio di apparecchi fotografici viene arrestato con l’accusa di spionaggio, in una situazione quasi kafkiana. In realtà la polizia francese sa benissimo che non è lui il colpevole, ma sa anche che non è in condizione di trattare, e dunque sarà la miglior spia possibile all’interno dell’hotel per smascherare la spia vera.
Di qualche anno fa, e sempre vicino al mondo del cinema come Ambler è il romanzo agghiacciante di Ira Levin “I ragazzi venuti dal Brasile”, BigSur. La copertina efficacissima e qualche ricordo del film con Gregory Peck e Laurence Olivier dovrebbero bastare per non costringermi a svelare nulla della trama. Apritelo solo se avete un po’ di ore a disposizione. A meno che non vogliate passare un’intera notte insonni: è scritto così bene che è impossibile staccarsene.
C’è un libro che regalo spesso, e di cui – fatti salvi i miei romanzi, ho un po’ di copie in libreria alla bisogna. È il romanzo d’esordio di Paolo Maurensig “La variante di Lüneburg” (Adelphi). Quando un ricco e anziano imprenditore tedesco viene trovato ucciso con un colpo di pistola inizia una partita a scacchi, metafora dell’indagine e ricordo del dramma che affondava le radici molti anni prima, quando il tedesco portava sulle spalle le mostrine con la doppia S e il bianco e nero non aveva le forme di una scacchiera ma le righe verticali di una divisa, dietro il filo spinato.
Per chi ama le atmosfere hitchkockiane, “La corte delle streghe” di John Dickson Carr (Mondadori) è una lettura irrinunciabile. Edward Stevens, giovane redattore di una casa editrice e studioso di storia si sposa con la bella Marie, che ha conosciuto durante un viaggio in Francia. Mentre sta lavorando a un manoscritto di un criminologo del passato scopre il ritratto della marchesa di Brinvilliers, famosa avvelenatrice del Seicento, in tutto identica a sua moglie. Non può essere “la donna che visse due volte” fino a quando l’anziano Miles, vicino di casa degli Stevens e discendente dell’uomo che secoli prima catturò la Brinvilliers, viene trovato morto avvelenato…

Pro domo mea mi piace citare una chicca, che lo stesso Dickson Carr definì “il più bel mistery mai pubblicato”, e di cui qualche anno fa curai una nuova e più attuale traduzione dal francese: si tratta del “Mistero della Camera Gialla” di Gaston Leroux (ALFA Edizioni). Autore conosciuto per il celebre “Fantasma dell’Opera”, Leroux confeziona con questo romanzo il più perfetto enigma della “camera chiusa” che io conosca: nel padiglione del castello del Glandier M.me Stangerson sta lavorando nel laboratorio di chimica insieme col padre e un servitore. Si ritira anzitempo nella sua camera, adiacente al laboratorio, e chiude la porta a chiave per la notte. Dopo poco i due uomini la sentono urlare disperata: cercano di forzare la porta che naturalmente è chiusa dall’interno. Il servitore si precipita fuori per entrare dalla finestra le cui inferriate sono ben salde e le impannate chiuse dall’interno e intatte. Quando finalmente, spallata dopo spallata, riescono ad abbattere la porta ed entrare nella stanza trovano la giovane riversa a terra, con una tremenda ferita al capo, e nessuno nella stanza. Nessuno dietro la porta, né nell’armadio, né sotto il letto. Nessun passaggio segreto – ovviamente –, nessuna presenza sovrannaturale, nessun suicidio (altrimenti sarebbe un giallo disonesto): un romanzo avvincente, un autore geniale al servizio del quale non ho esitato a mettere la mia penna. A volte è un piacere per uno scrittore curare i libri di un “collega”, non solo scrivere i propri.
In una stanza, chiusa anch’essa, si apre l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni, “Il pianto dell’alba”, con la figura del Commissario Ricciardi nella Napoli all’alba del Ventennio. Ne ho seguito le mosse sin dal suo primo apparire, con “Il senso del dolore” nel 2007, e ho letto con avidità questo romanzo che ne chiude la serie. L’ho letto con la fretta dei lettori compulsivi fino alle ultime cinque pagine. Poi ho capito cosa stava per succedere, e ho rallentato, centellinando ogni riga, un po’ per la malinconia di dover dire addio a un amico – succede così coi libri belli, che non vorresti finissero mai –, un po’ per l’ineluttabile esito della storia raccontata, che mi ha lasciato triste.
La vita è sovente già abbastanza problematica di suo senza bisogno che anche le letture aggiungano pensieri. Eppure la letteratura non è solo divertissement, e ci ricorda che, anche se ci ha concesso qualche mezz’ora di fuga, la realtà con la sua crudezza ci aspetta appena ci rialziamo dal divano. Se le pagine dei libri che ci hanno fatto compagnia ci hanno reso anche solo per qualche minuto più forti, leggere non è stato tempo perso.
Stefano Motta
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