Quando Merate era un borgo agricolo e avere qualche mucca era la vera 'ricchezza'. La storia raccontata da Mario Ferrario

Questa intervista, per essere davvero efficace, andrebbe scritta in dialetto. Ma ahinoi riusciamo a comprenderlo così così, a parlarlo poco e a scriverlo niente del tutto. Quindi la vicenda di Mario Ferrario, classe 1932, 86 anni compiuti il giorno di Santo Stefano, di professione agricoltore in pensione, ex pompiere volontario, cliente della panetteria Albani puntuale come le tasse da Cascina San Sebastiano a via Carlo Baslini di Merate in bicicletta con l'inconfondibile copri orecchie di lana e la sporta sul manubrio, ci tocca raccontarla in italiano, sapendo che perderà almeno la metà del suo spirito guida.
Intanto, perché "Ul Tuleta, soprannome della famiglia di provenienza padernese?" Per la buona ragione che è uno dei meratesi doc più conosciuti, ancora lucidissimo nei racconti del passato e trapassato remoto. E, in definitiva, perché incarna l'immagine del meratese tutto d'un pezzo: lavoratore infaticabile, padre di famiglia. rispettoso delle regole. Visceralmente attaccato alla "sua" città che ha visto crescere, da borgo di campagna a cittadina moderna che, accanto alle fabbriche e al terziario ha saputo però mantenere una fetta di terra coltivata. Per non dimenticare mai da dove si arriva..


Mario Tuleta
 
"Mio padre era contadino. Si spaccava la schiena a vangare, tagliare l'erba per gli animali, segare il grano. Tutto a mano con falci e falcetti diversi a seconda dell'uso. Ma già arrivavano le prime macchine agricole. A 17 anni avevo seguito "Ul Buschett", il papà di Pierpaolo Arlati che possedeva due trebbiatrici. Trebbiavamo frumento per tutti i contadini e poi lo imballavamo con la macchina che con una cinghia girava con la trebbiatrice. Settantamila lire in due mesi quando un operaio ne prendeva 20mila. Dovevo seguire le orme di papà ma un dirigente del Consorzio Agrario - ci sono quegli incontri che ti mettono sulla strada giusta - mi disse: meno frumento e grano e più mucche. Ne comperai un paio dai Gavazzi di Verderio; "bruna alpina" era la razza, solida ma non andava oltre i 20 litri di latte al giorno seppure di ottima qualità mentre la "frisona italiana" arrivava a 30 litri. Arrivai ad averne 12 di mucche quando tutti i contadini ne avevano due o tre".


 
A parte l'Arlati gli altri lavoravano tutti di braccia e gambe?
 
"I contadini si associavano. Sembra strano ma una volta l'unione tra poveri era molto forte. Si mettevano in comune asini e cavalli per arare più velocemente. Io grazie agli incassi del latte - che allora rendeva non come adesso - riuscì a comperare una falciatrice BCF da 200mila lire. Una spesa coperta in un solo anno andando in giro a tagliare l'erba, soprattutto nelle ville dei signori che poi mi lasciavano portarla via per le bestie. La Fiat aveva già fatto qualche trattore ma di macchine agricole ce n'erano poche. Col "Buschett" giravamo fino a Erba a tagliare il frumento. A Merate si "batteva" frumento fino a 3mila quintali. I terreni più fertili erano quelli dove ora c'è la casa di riposo Frisia e la discarica".



 

Ma non era tentato dalla vita in fabbrica?
 
"Sì mia mamma aveva insistito molto ma quel dirigente, che poi è il papà della moglie del panettiere Marco Albani mi aveva consigliato bene. Fare il contadino e l'allevatore ma con un occhio alle cose nuove che venivano avanti. E a chi mi diceva: guarda che vanno tutti in fabbrica a lavorare, posto e stipendio sicuri io rispondevo che i pesci buoni vanno contro la corrente non la seguono".
 


Ma i rischi, per esempio di malattie delle mucche c'erano...
 
"Sì c'erano, mica i controlli si facevano come oggi che sono fin troppi. Ma ci si aiutava tra tutti. Per esempio il papà di Battista Albani aveva creato la società del bestiame cui tutti i contadini erano associati. Quando a un contadino moriva un mucca ne vendeva secondo uno schema preciso un tot di chili a ciascun associato in modo che con i soldi raccolti riusciva a comperare un'altra bestia. Era una specie di mutuo soccorso".
 


E il tempo per farsi una famiglia?
 
"Non ce n'era molto. Ma quanto bastava. Un bel giorno vado a Sartirana per dei lavori in una villa. Entro nella portineria e mi accoglie una signora mantovana. Mentre discorriamo guardo in giro e vedo una fotografia di una ragazza che di lì a poco entra in casa. Mi butto e le dico: è più bella così signorina che in fotografia. Da quel giorno, come si dice "ho taca a fa la runda...". E finalmente Maria si è accorta che giravo lì per lei. Dopo tre figli e una vita insieme siamo ancora qui, un po' malconci ma nel mio  portafoglio c'è sempre quella vecchia fotografia con la Maria sorridente e bella da morire".
 


Sartirana, il lago, la riserva, cosa resta oggi?
 
"Rovi, cannette, fango sul fondo e acqua stagnante. Peccato però, era una bellezza. Da ragazzi lo attraversavamo più e più volte. Le domeniche si trascorrevano al bagnolo e con due bracciate sull'isola galleggiante. C'era pesce in quantità e un paio di isolette verso la riva che dà su Sartirana. Oggi sono diventate grandissime e portano via tanto spazio all'acqua. E avanzano di anno in anno come il canneto e le sterpaglie".
 



Una volta erano proprio i contadini a tenere in ordine la riserva.
 
"Sì perché si traeva anche qualche guadagno. Tutti i terreni intorno erano della signora Colonna moglie del principe Falco'  mentre i diritti sulle acque erano degli Gnecchi di Verderio. Sono stati loro a realizzare la Roggia Annoni per irrigare i campi di Robbiate e giù fino al confine con Ronco. Però non è la roggia di oggi. Una volta correva accanto al sentiero che costeggia le mura dell'osservatorio, arrivava dentro la valletta di Novate dove c'era quel bellissimo laghetto fatto tutto a canali con intorno i pioppi, pieno di gamberi d'acqua dolce e scendeva poi fino a Verderio. Adesso invece la roggia entra nello stagno di San Rocco e dal tombotto va a alimentare la Ruschetta che si immette nell'Adda. Anche lo stagno un tempo era un paradiso, molto pescoso, pieno di tinche, tutto pulito col sentiero intorno. Oggi è una palude putrida".
 

La lista per le sedie


Scalere per bachi da seta

Che cosa traevano i contadini dal lago?
 
"D'inverno tagliavamo le cannette che servivano per costruire le tavole per i bachi da seta. Si chiamavano  "scalere", avevano il fondo costituito da fusti di erbe di palude, cannette di bambù, legate tra di loro con spago fine affinché si realizzasse una superficie semirigida ma arieggiata. Poi si tagliava la lisca che spuntava in ceppi dall'acqua. Serviva per impagliare le sedie. Anche da qui si traeva un discreto guadagno. Oggi non si fa più niente del genere, la canne avanzano poi marciscono e finiscono sul fondo. Se nessuna le taglia e nessuno pulisce il fondo finirà che diventerà un lago con un metro d'acqua e tre di fanghiglia".
 


Ma non si incendiava periodicamente il canneto?
 
"Sì qualcuno lo faceva ma è inutile, la cenere finisce lo stesso sul fondo del lago e l'anno dopo il canneto ricomincia a crescere".
 

Foto storiche dei pompieri


 
E veniamo all'immagine che molti ragazzi degli anni cinquanta, tra cui chi scrive, ricorda con nostalgia: un uomo semisdraiato su un vespone che affronta  la curva a destra, davanti al vecchio oratorio di via Bianchi. Prima l'ululato della sirena antiaerea posta sul Municipio, quindi tutti fuori dall'oratorio a vedere Mario che arriva sparato per raggiungere piazzetta San Bartolomeo in men che non si dica.
 
Ride. "A 20 anni ho fatto il corso di pompiere volontario. Mi piaceva proprio. Prima eravamo presso il municipio poi giù in San Bartolomeo. Eravamo pochi, una decina con un vecchio autobotte e una jeep scassata. Eppure abbiamo fatto centinaia di interventi. Il comandante era Mario Milani e dopo di lui l'ingegner Arturo Comotti. Ma l'uomo di riferimento era Lavinio che abitava dentro il distaccamento. Era lui che rispondeva giorno e notte al telefono e poi azionava la sirena per chiamare a raduno i pompieri. E sempre lui che si metteva alla guida della botte con l'inseparabile Luigi Colombo accanto. Quando sentivo la sirena mollavo tutto, le bestie, i campi, saltavo sul Parilla, la mia prima moto e poi sulla Vespa e via di corsa. Si prendeva la divisa, il casco e si saltava sul camion. Che tempi..."


Quanto c'è rimasto?
 
"Dal '52 al '68 poi è nato il mio terzo figlio e come regalo a Maria, che era sempre preoccupata per i pericoli cui andavamo incontro, le ho portato in ospedale anziché il mazzo di fiori, la lettera di accettazione delle dimissioni. Ma mi è spiaciuto tanto lasciare gli amici e il corpo".

 
Interventi molti e pericolosi?
 

"Beh non c'erano le attrezzature di oggi. Si lavorava di pompe e picconi per aprirsi la strada tra le macerie fumanti. Ricordo l'incendio in un grosso allevamento di mucche a Casatenovo. Il padrone si disperava per gli animali che però erano legati con l'anello alla catena. Ma facevo anche il contadino, sapevo come si fa: bisogna costringere l'animale a fare qualche passo in avanti in modo da allentare la catena; dissi a un collega di spingere col forcone le mucche quel tanto che bastava a consentirmi di sganciare l'anello. Le salvammo tutte e venti, poi portata fuori l'ultima crollò l'intero edificio. Il padrone non sapeva più come fare a ringraziarci. Piangeva e ci abbracciava. Ricordo le fiamme a Valmadrera in un deposito di carburanti e un altro a Olgiate in una segheria dove col mio amico Giulio recuperammo un cadavere. Allora non c'erano le bombole e le tute ignifughe. Si entrava col fazzoletto bagnato sulla bocca e il giubbotto d'ordinanza. Ricordo i quattro ragazzi morti al ponte della Biscioia. Andavano in Svizzera a lavorare, un frontale con un camion e una scena agghiacciante. Ma soprattutto ricordo i morti suicidi nel fiume. Recuperavamo gli annegati con il barchino. E quei poveretti che si gettavano dal ponte.  Capitava di conoscerne qualcuno. Allora era peggio ancora. Mi ricordo una brava ragazza di Calusco che lavorava alla Imec, suicida perché rimasta incinta e un'altra di Carvico che si era tolta la vita per un esaurimento. Li ripescavamo e guardavamo i visi di questi poveretti. Spesso quei volti tornano ancora la notte".
 


E la politica?
 
"Adesso non la seguo più ma da giovane ero un democristiano convinto. Con i ragazzi più grandi insieme a don Natale andavamo a affiggere i manifesti con su De Gasperi e don Sturzo. Allora i comunisti erano davvero comunisti duri c'era sempre il rischio che finisse a botte. Una notte un gruppetto di rossi ci sorprende mentre attacchiamo i manifesti. Loro minacciano, noi non arretriamo. Andate voi in Russia, gli dico, io finché resto qui difendo la chiesa e la Dc. Per fortuna ha vinto proprio la Dc se no finivamo come uno dei paesi comunisti che sono rimasti tutti più poveri, arretrati e senza libertà. Nel '48 abbiamo scritto una filastrocca che recitavamo a ogni occasione politica. Pensa un po' che a distanza di 70 anni me la ricordo ancora a memoria. Sentila..........".

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Claudio Brambilla
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