Beverate: Padre Antonio, quarant'anni in Sud America tra cartelli della droga, violenza e...speranza

Si è tenuta nella serata di sabato 7 luglio presso l'Oratorio di Beverate la pizzata con Padre Antonio, missionario in Colombia da una quarantina d'anni, che ha raccontato alla comunità la propria esperienza in terra sudamericana. Un'esperienza fatta di persone, di uomini e donne alla ricerca di un futuro, tra guerriglie, cartelli della droga, povertà ma nonostante tutto anche speranza. Con lo stesso entusiasmo del primo giorno Padre Antonio si è "raccontato", tratteggiando quella Terra che per lui è diventata la sua patria.

Padre Antonio



Padre Antonio, dove è stato in missione? 
Sono quarant'anni che sono in Colombia, di cui ho visitato praticamente ogni luogo. Sono stato a Medellín, Cali, Cartagena, Bogotà ... Ho lavorato in tutte le zone in cui siamo presenti noi Padri Somaschi.


Dunque immaginiamo che lei abbia vissuto i cartelli della droga colombiani...
Assolutamente sì. I due grossi "carteles" della droga sono stati quelli di Pablo Escobar a Medellín e quello degli Ochoa. Ho conosciuto personalmente la guerriglia, i paramilitari, tutte quelle forze di terribile violenza colombiana.


Come ha vissuto quei momenti? 
Con paura, ma anche e soprattutto con speranza, perché nonostante tutto la gente si è dimostrata capace di sopravvivere e di credere nella vita. Certamente è dura, perché si vede da vicino la morte di tante, tantissime persone.

Alcuni momenti della pizzata in oratorio

Com'è oggi la situazione in Colombia? C'è stato un miglioramento? 
La situazione è cambiata, ma non è migliorata. Invece che esserci la guerriglia della FARC, oggi c'è la guerriglia della BACRIM, che significa "bande criminali". A queste si sommano i dissidenti della FARC, coloro che non si sono disarmati, e la guerriglia ELN. Il narcotraffico non è finito, anzi, è aumentato il numero degli ettari coltivati a "hoja de coca", cioè foglie di coca. In Colombia vi è soprattutto una forte corruzione politica, che crea povertà da più di 200 anni. Sono solo cambiati gli attori della violenza e della corruzione, ma le situazioni di ingiustizia e di povertà sono le medesime. Artefice di tutto ciò è soprattutto il narcotraffico, che favorisce il potere mediante i soldi mal avuti, per cui chi ha tutto toglie a chi invece ha bisogno.


Come operate in Colombia? 
Noi agiamo su diversi fronti. Il primo è l'intervento diretto, dando da mangiare alle persone bisognose grazie anche all'aiuto della CEI, delle organizzazioni e di tante persone come gli amici di Beverate. La nostra strategia è però soprattutto la creazione di coscienza tra i colombiani, ossia la fede in se stessi, in modo che siano capaci di percorrere una strada fissandosi degli obiettivi, ricomponendo la loro autostima cosicché dicano "io posso farcela". La cultura è l'arma che viene data loro affinché si rendano conto di quello che sono capaci di fare, perché non c'è nessun in questo mondo che non sia capace di superarsi. Inoltre, cerchiamo di fornirgli dei mezzi con cui possano organizzarsi, quali ad esempio piccole industrie familiari, dando un sussidio per creare lavoro. E' un lavoro umano, culturale, spirituale, psicologico, di accompagnamento. È solo una piccola goccia, ma nonostante questo si vedono i risultati. Dopo 40 anni alcuni giovani che ho conosciuto quando erano dei bambini sono diventati dei professionisti, dando lavoro alla gente e mettendosi in politica in maniera sana e non corrotta. Questo ci dà la forza di andare avanti.


Immaginiamo che lei non sia solo in missione... 
Assolutamente no, siamo tantissimi, di tutti i credi: l'importante è avere come molla l'amore per la persona. Noi lavoriamo con laici, con professori, con religiosi, ma anche e soprattutto con persone "della base", come le donne che da sole portano avanti famiglie, dette "cabeza de hogar", e i giovani, che sono la speranza del domani. C'è poi chi lavora nelle scuole, con gli immigrati, con le vittime di violenza.


Avendo visitato tutta la Colombia, ha trovato elementi in comune tra le persone?
In Colombia ci sono tutte le etnie, le mentalità, le culture e le tradizioni, ma c'è una base fondamentale comune: l'amore per la vita, la speranza, la fede che sostiene. Noi tutti siamo uomini o donne, con lo stesso cuore, gli stessi sogni, le stesse visioni della vita, e in questo senso tra di noi ci capiamo. E' così che i colombiani convivono con persone da ogni parte del mondo, compresi gli immigrati africani che risiedono sulla costa pacifica in condizioni di estrema povertà. Ciò che affascina di queste persone è la loro forma di vivere positiva, caratterizzata da grande gioia, nonostante la situazione di abbandono totale da parte dello Stato.


Come è nata la sua vocazione? Perché la scelta di partire e non di rimanere a fare il parroco in Italia? Ma soprattutto, perché la Colombia? 
La mia vocazione è sempre stata quella di essere un missionario per la gente e con la gente, e non di fare il prete di sacrestia. Noi Padri Somaschi abbiamo in Italia delle istituzioni, ma il mio sogno era di guardare le persone negli occhi, toccandogli il cuore. Prima di essere ordinato pensavo di partire per l'Africa, dove però non avevamo ancora delle opere attive e per fondarne non potevamo partire da soli, ma almeno con altri 2 o 3 missionari. Non avendo trovato chi mi accompagnasse, ho pensato di andare in Colombia, dove eravamo già presenti. E da lì non sono più tornato, tant'è che oggi considero la Colombia la mia patria, senza però togliere l'affetto che ho verso la mia gente. Questo perché noi Somaschi non facciamo distinzioni, in quanto ciò che consideriamo importante è l'uomo. Che sia un politico, un ricco: noi arriviamo al suo cuore. Certo, il nostro lavoro è prevalentemente con i poveri, ma io ho contatti con qualsiasi persona. Questo perché tutti abbiamo bisogno di una mano amica e di affetto, anche i "ricchi poveri", ossia coloro che sono così poveri che l'unica cosa che gli rimane sono i soldi.

 


Lei tra tre settimane tornerà in Colombia, cosa farà esattamente al rientro? 
Nella mia vita ho lavorato un po' in tutti i campi. Ho incominciato con i giovani, prendendomi cura di bambini molto piccoli o accompagnando ragazzi desiderosi di studiare all'università, e ho anche avuto il ruolo di formatore, preparando i "futuri" somaschi. Ho lavorato con i nostri preti nella "formazione permanente" e adesso sono Padre Provinciale, cioè padre responsabile che coordina tutte le opere, le case e i religiosi che sono in Colombia, sostenendo e formando i preti incaricati del servizio. Questa per me è una forma di "castigo", perché amo lavorare con la mia gente, con i bambini e con i ragazzi, mentre ora devo coordinare dall'alto, organizzando le attività e accompagnando chi oggi, come me nel passato, sta "sul fronte". Ciononostante, non sono al di fuori della realtà, e per quanto sia nuovo è per me un lavoro bellissimo. Devo dare coraggio e sostegno a persone che hanno lavorato come me e che hanno dei momenti di crisi e dei dubbi, confortando anche preti che sono ormai stanchi e disillusi. Assisto inoltre quando vi è la necessità di aprire un nuovo fronte o di fissare dei nuovi obiettivi, tracciando un cammino per tutti noi, che non è solo in Colombia, ma anche in Ecuador e, non appena avremo più braccia disponibili a darci una mano, anche in Venezuela e Perù. Papa Francesco dice proprio di "andare alla periferia". Il pericolo è infatti quello di accomodarci in quello che stiamo facendo e dove stiamo operando, ma il mio compito è prima di tutto scomodare, stimolare, evitando di "sederci" nello stesso posto e ripetendo quanto stiamo facendo da anni.


Ci sono volontari italiani che vengono ad aiutarla? 
Ci sono un sacco di volontari: alcuni restano una settimana, altri un mese o più. Tutti quanti vanno via con le lacrime agli occhi, essendo un'esperienza irripetibile che consente di confrontarsi anche con situazioni estreme nei posti maggiormente di frontiera del paese. C'è ad esempio una coppia di Intimiano che è rimasta ad aiutare per ben due anni e al loro ritorno in Italia hanno portato con sé un bambino, oppure ci sono anche esperienze di gruppo, come ad esempio quello da Magenta. Gli aiuti non vengono però solo dall'Italia, ma anche dall'estero, come dall'Ecuador o dalla Francia, da cui proviene l'organizzazione Cuore Amico, che da tanti anni opera in Colombia con grandi risultati semplicemente stando con la gente. Questo perché non c'è bisogno di costruire o di fondare opere per fare del bene, ma si può portare un aiuto prezioso anche solamente accompagnando queste persone nella vita di tutti i giorni, condividendo con loro la quotidianità.
Giulia Melotti Garibaldi
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