Church pocket/59. Una Chiesa senza Francesco: cosa resta?

Il cantiere di Francesco è ancora aperto: sfide teologiche, pastorali e politiche in una Chiesa in transizione.

Cosa accade quando un pastore muore, ma il suo passo continua a risuonare nel cammino della Chiesa? Quando il silenzio della sua voce non segna una fine, ma l’inizio di nuove domande? Francesco non lascia solo un’eredità. Lascia un cantiere aperto. Un pontificato segnato da uno stile diretto, scelte pastorali coraggiose e riforme mai completamente concluse. Il dopo-Francesco non può essere né un semplice ritorno al passato, né un proseguimento lineare. Sarà una nuova fase, in cui si giocherà una sintesi delicata tra fedeltà e rinnovamento. Un tempo di discernimento, confronto, e forse anche di tensione feconda.

1. Dottrina e vita: un equilibrio ancora da trovare
Una delle sfide più evidenti del pontificato di Francesco è stata la volontà di superare la frattura – spesso solo apparente, ma a volte drammaticamente reale – tra dottrina e pastorale. In questo sforzo, Francesco ha cercato di ricollocare la pastorale non come semplice esecuzione delle norme, ma come spazio teologico, luogo in cui la dottrina si incarna, si adatta, si fa prossimità. Documenti come Amoris Laetitia e, il successivo, Fiducia supplicans ne sono espressione concreta. Entrambi hanno suscitato un vasto dibattito. Alcuni li hanno letti come aperture necessarie, altri come cedimenti all’ambiguità. Ma resta la stessa domanda: può la coscienza illuminata diventare criterio reale nel discernimento ecclesiale? E quale ruolo ha il pastore nell’accompagnare le situazioni che sfuggono alle categorie canoniche? Il dopo-Francesco sarà inevitabilmente un tempo di chiarimento. Il prossimo pontefice dovrà aiutare la Chiesa a maturare una visione unitaria, evitando sia il ritorno a una passata teatralità sia all’adozione di criteri eccessivamente fluidi. Una sfida che non è solo teologica, ma ecclesiale, pastorale, spirituale e antropologica.
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2. Sinodo: metodo o nuova forma di Chiesa?
Il percorso sinodale voluto da Francesco ha cercato di mettere al centro l’ascolto, il confronto, la partecipazione. Ha restituito a molte realtà ecclesiali una voce, ha rilanciato la corresponsabilità come modello di Chiesa, ha messo in discussione forme consolidate di governo ecclesiastico. Ma ora il tempo dell’evento è finito, e si apre quello delle scelte. Il rischio è che tutto si fermi alla superficie: un metodo consultivo, una buona prassi organizzativa. Ma la posta in gioco è più alta: rendere la sinodalità una struttura portante della Chiesa cattolica. Cosa significa, ad esempio, dare reale voce deliberativa ai laici? Quale spazio per le Conferenze episcopali nel governo universale? Come ripensare i ministeri, il ruolo delle donne, i processi decisionali? Il futuro pontefice si troverà davanti a un bivio: rafforzare questo processo, aprendolo ulteriormente, oppure contenerlo in forme più definite. In entrambi i casi, sarà necessario uno sforzo di discernimento ecclesiologico, per evitare che la sinodalità venga ridotta a tecnica oppure, al contrario, stravolta in senso politico. Ciò che conta è il modo: uno stile di ascolto e di conversione, prima che una riforma delle strutture.
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3. Dal vissuto alla teologia: pensare Francesco
Francesco ha saputo vivere e comunicare una teologia pastorale, concreta, radicata nel concreto delle persone. Una teologia spesso più agita che scritta, ispirata alla cosiddetta teologia del popolo di matrice latino-americana: una visione incarnata, esperienziale, in ascolto della cultura popolare, capace di leggere la fede attraverso i gesti quotidiani della gente. Ma questa teologia ha bisogno ora di essere raccolta, interpretata, sistematizzata. I tratti distintivi del pensiero di Francesco – la centralità della misericordia, la priorità della realtà sull’idea, il tempo superiore allo spazio, l’unità che prevale sul conflitto – meritano una riflessione organica. Tuttavia, accanto alla forza profetica di questo stile teologico, si è aperta una criticità tuttora irrisolta: il rapporto con il clero, i seminari e le strutture gerarchiche della Chiesa. In più occasioni, Francesco ha espresso giudizi duri verso la “rigidità dottrinale” di alcuni ambienti. Un tono spesso percepito come polemico, talvolta generalizzante, che ha lasciato ferite e incomprensioni soprattutto tra i giovani preti, nei seminari e nelle diocesi più periferiche. Molti pastori si sono sentiti poco compresi o persino delegittimati, in un momento storico già segnato da fatica vocazionale e fragilità istituzionale. Il dopo-Francesco dovrà necessariamente raccogliere anche questa eredità problematica, cercando una nuova sintonia tra il carisma del popolo di Dio e la struttura ministeriale, tra la libertà dello Spirito e il servizio della gerarchia. Questo lavoro non spetterà solo al prossimo Papa, ma anche alle facoltà teologiche, ai sinodi locali, alle comunità accademiche e pastorali. Il dopo-Francesco potrà essere un tempo fecondo di dialogo e di sintesi, se si saprà accogliere la sua intuizione di fondo: che la teologia non nasce in astratto, ma prende forma nella carne della storia. E che anche le tensioni ecclesiali possono diventare laboratorio di discernimento e di comunione.
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4. Liturgia: tra ferite e bellezza
Il campo liturgico è, forse, uno dei più delicati che il prossimo pontificato dovrà affrontare. Con il motu proprio Traditionis custodes, Francesco ha posto limiti severi alla celebrazione del Vetus Ordo, nella convinzione che la riforma liturgica del Concilio Vaticano II sia univoca e parte integrante del cammino della Chiesa. Tuttavia, questa decisione ha riacceso ferite mai completamente rimarginate. In alcune comunità si è vissuta come una frattura dolorosa, in altre come un atto necessario. C’è chi ne ha apprezzato il coraggio, e chi vi ha visto un gesto divisivo. Ma il vero nodo non è solo il rito antico, bensì il bisogno di una liturgia che parli a tutti: che sia fedele alla tradizione, ma capace di coinvolgere, di nutrire, di educare. Il futuro Papa sarà chiamato non solo a regolare l’uso dei riti, ma a riaprire un grande discorso sulla liturgia come luogo di incontro con  Lui e con la comunità, di bellezza e di comunione. Una liturgia viva, partecipata, accessibile ma non semplificata, non omologata, che restituisca al popolo cristiano il gusto della preghiera e il senso del Mistero, accogliendo le singole peculiarità. Qui si gioca una dimensione fondamentale dell’ecclesiologia: la Chiesa si deve riconosce in una sola forma liturgica?

Il cammino continua
Il dopo-Francesco non è un tempo già scritto. Sarà il frutto di scelte concrete, interpretazioni diverse, resistenze e nuove aperture. Ma una cosa è certa: il prossimo Papa erediterà non solo una cattedra, ma un laboratorio in fermento. Un pontificato che ha suscitato slanci e tensioni, aperture e domande. Dovrà decidere se chiudere il cantiere, ampliarlo o rilanciarlo. E, come amava dire Francesco, “la realtà è superiore all’idea”: sarà la realtà, e non i programmi, a chiedere risposte nuove. La Chiesa resta in cammino. Perché la fede non è una formula da custodire, ma una Parola da ascoltare. E il Vangelo – come ci ha insegnato Francesco – è, prima di tutto, una strada da percorrere insieme.

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Rubrica a cura di Pietro Santoro
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