Pagnano: alla Bamp la lettura dell'inno d'Italia con Castoldi

Una lettura dell'inno di Mameli, attraverso le fonti, senza le ostentazioni di sicurezza sulle versioni, portate avanti negli anni dai detrattori così come dai celebratori. Nella serata di lunedì 7 aprile Massimo Castoldi, filosofo, critico letterario, docente di lettere e direttore di Casa Manzoni,è stato ospite della BAMP (Biblioteca Alfonso Mandelli Pagnano), per scoperchiare, con l'aiuto di Rosa Stella Colombo, il significato autentico del testo, partendo dal suo saggio “L’inno di Mameli: un canto di pace”.
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Massimo Castoldi e Rosa Stella Colombo

Un lavoro esito di uno studio ventennale dei manoscritti originali, che lasciando da parte i pregiudizi, riporta l'inno alle sue origini, analizzando le contraddizioni sollevate negli anni dal pubblico. Il testo di Mameli, risalente al settembre 1847 e musicato da Michele Novaro, riscosse immediatamente un enorme successo, diventando inno nazionale della Repubblica Italiana, ufficializzato però solamente il 4 dicembre 2017 a causa proprio delle controversie e appropriazioni indebite perpetrate nei suoi 170 anni di “vita”. Un testo pensato per accompagnare il grido “evviva l'Italia” delle grandi manifestazioni di Genova per l'unità nazionale. Inizialmente fu proprio questa frase ad occupare la prima strofa dell'inno, poi diventata “Fratelli d'Italia”, per richiamare la tradizione rinascimentale: il popolo italiano doveva unirsi per costituire la patria.
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“Siam pronti alla morte”, un sogno che si doveva dunque raggiungere anche attraverso il proprio sacrificio, un messaggio privo di violenza verso il nemico, come a differenza viene decantato nell'inno francese e che dunque non veniva visto di buon occhio dal fascismo. Uno dei versi più commentati e banalizzati è “L'elmo di Scipio”, ovvero di Scipione l'Africano, il trionfatore delle Guerre Puniche, l'ultimo baluardo della Repubblica Romana prima che cadesse in una deriva autoritaria. Mameli aveva scritto un appunto in francese, dove fa riferimento a una frase di Voltaire, in cui diceva che l'Italia avrebbe smesso presto di essere il paese degli Arlecchini con la tonaca, e quindi della controriforma, e tornerà ad essere il paese degli Scipioni, il paese della ragione, dell'illuminismo, una teoria sostenuta anche da Dante.
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“Mameli con il suo testo ha fortuna, perché non attacca né il re né il papa, quindi può andare bene sia per il discorso federalista che per quello mazziniano, anche se poi il secondo è quello che si legge nelle strofe, con l'immagine di un popolo che si riconosce unito da Dio senza mediatori” ha spiegato lo storico. Nonostante lo scritto venne sottoposto a censura a Torino, questo passò perché riuscì a mantenere un equilibrio tra le parti, non risultava aggressivo, polemico o politico. Il saggio di Castoldi contiene anche tutte le critiche e le parodie bonarie, per sottolineare la popolarità del canto, che è da sempre stato sulla bocca di tutti. Un breve spezzone è dedicato all'aspetto musicale, curato tra il settembre e novembre 1847, non solo da Michele Novaro, e che poi fu riproposto dal direttore d'orchestra repubblicano Arturo Toscanini all'entrata dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale. Un inno che con l'avvento del fascismo venne screditato da Mussolini, che estrapolò due elementi: la figura di Mameli, dell'eroe che si sacrifica per la patria e la figura dei Balilla, che incarna l'idea di Dio e popolo, rinnegando il resto del testo. Uno dei maggiori promotori dell'inno fu il massone, antifascista, repubblicano e ministro della guerra Cipriano Facchinetti, che lo fece passare come canto “ufficiale” durante tutte le cerimonie di importanza del 1946.
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L'esercito però era ancora strettamente monarchico, il mondo cattolico era contro l'inno perché Mameli era morto combattendo il Papa, i comunisti e parte dei socialisti non erano d'accordo perché il testo esaltava la patria e non era internazionalista. Nel 1946 perciò in pochi lo sostenevano direttamente, per questo motivo sui giornali non si trova prova che l'inno di Mameli era diventato il canto nazionale. Oggi l'attaccamento alla patria è poco sentito e per questo l'inno non ha risposto bene alla difficoltà del popolo italiano di sentirsi veramente unito, di rispecchiarsi in un'identità coesa, soprattutto dopo il ventennio fascista. Il presidente Ciampi fu una delle figure che più spinse l'Italia a fare i conti con la propria storia, per poter andare avanti, ritrovando nel risorgimento e nell'inno un senso di patria, un senso che concettualmente non è negativo, ma che è lo stesso per tutti i popoli di legame con la propria terra. “La storia ci ha consegnato questo inno, non è un caso che sia riuscito ad arrivare a noi scavallando tutti i conflitti, bisogna quindi accettarlo e tenerlo” ha concluso l'autore, prima di passare a un firmacopie del suo libro.
I.Bi.
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