Dazi nostri? Il trionfo delle bugie

 L’Unione Europea impone alle merci provenienti dagli Stati Uniti un dazio dell’1%, che sale al 3% per l’alluminio grezzo (codice doganale 7601 10) e al 6% per le leghe di alluminio in pani (codice doganale 7601 20 80): come si vede, si tratta di valori ben lontani dal 39% sbandierato da Trump in diretta televisiva per giustificare l’imposizione nei nostri confronti di un “dazio reciproco” fissato per sua bontà al valore dimezzato del 20%. Messa alle strette da diversi giornalisti nelle ore immediatamente successive alla trasmissione, l’amministrazione Trump ha poi ammesso che il 39% non rappresentava in realtà il valor medio dei soli dazi doganali europei, ma la somma di tutti i balzelli “doganali ed extradoganali” che gravano in media sulle nostre importazioni di prodotti americani, balzelli che includerebbero anche l’IVA e i costi imposti dalle nostre norme sanitarie. L’assimilazione dell’IVA a una tassa di importazione non denota altro che analfabetismo economico: l’aliquota IVA del 22% (contro una sales tax che varia tra l’1% e l’11% nei diversi states e nelle diverse contee) grava in Italia tanto sulle calzature o sui cellulari prodotti in Europa quanto su quelli fabbricati negli Stati Uniti, in Cina o in qualunque altro angolo del mondo, e non penalizza affatto, come qualcuno crede o finge di credere, i prodotti americani rispetto ai nostri. Quanto ai regolamenti sanitari, qualcuno pensa davvero che per accontentare l’inquilino della Casa Bianca dovremmo permettere anche da noi la libera vendita di alimenti saturi di sostanze perfluoroalchiliche (PFAS), o di carne agli ormoni, solo perché queste cose sono consentite nel suo paese? Temo per inciso che qualcuno da noi potrebbe essere tentato, nascondendosi magari dietro qualche abile giro di parole, di rispondere di sì. Peccato comunque che anche questa seconda interpretazione riveduta e corretta dall’amministrazione nordamericana non rappresenti altro che un’ulteriore bugia o, se più pudicamente vogliamo esprimerci nella lingua di mr. President, una fake. Risulta infatti che i dati contenuti nella colonna di sinistra del vistoso tabellone ostentato dal tycoon davanti alle telecamere non sono nemmeno il frutto di calcoli alquanto macchinosi impostati su premesse fasulle, ma il banale risultato di una semplice formuletta aritmetica che nulla ha a che vedere con aliquote doganali propriamente o impropriamente intese. Volete riprodurli? Vi basterà partire dal deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti di un determinato paese, moltiplicarlo per 100 e poi dividere il risultato per il valore dei prodotti che gli Stati Uniti importano da tale area geografica. Una nazione economicamente depressa come la Cambogia, troppo povera per acquistare quantità significative di merci americane e costretta a svendere agli Stati Uniti (e non solo agli Stati Uniti) le proprie materie prime, viene così accusata senza alcun fondamento di aver innalzato una barriera protezionistica del 97% e punita con un’aliquota doganale del 48%. Un solo dettaglio resta a questo punto da chiarire: gli autori di questa tragica buffonata sono essi stessi degli analfabeti o semplicemente prendono per analfabeta chiunque li ascolti?
Pur non essendo uno dei presunti esperti che frequentano i salotti televisivi ai quali allude Germano Bosisio, spero di essergli stato di qualche utilità sulla questione della (in)fondatezza delle recenti plateali rivendicazioni trumpiane. Dal momento che mi reputo come lui un semplice cittadino che cerca di informarsi, chiedo a mia volta, a lui o chi altro voglia rispondermi (firmandosi, naturalmente), di aiutarmi a sciogliere un apparente paradosso. La bilancia commerciale degli Stati Uniti si trova da tempo immemorabile in pesante passivo o, in altre parole, gli americani consumano molti più beni di quanti non ne producano: come mai allora chi li rappresenta tratta adesso il resto del mondo come un’accozzaglia di parassiti? Non rispondetemi per favore che quei beni ce li pagano, ovvero che in cambio ci danno quelli che erano fino a ieri dei pezzi di carta e che oggi vanno visti più correttamente come dei dati smaterializzati circolanti nel mondo digitale, perché se quei pezzi di carta o quelle cifre a noi attribuite nei database delle banche potessimo senza rimetterci tradurli in beni prodotti negli Stati Uniti la loro bilancia commerciale non sarebbe in passivo. In realtà il loro denaro, attratto dagli alti rendimenti che la politica statunitense ha finora saputo garantire, finisce per essere reinvestito nel loro stesso paese producendo tra l’altro, in accordo con la legge della domanda e dell’offerta, quella supervalutazione del dollaro che rende poco competitive le loro merci perpetuando così il deficit commerciale di cui sopra. Chi sono allora in realtà i parassiti? Si tratta evidentemente di un circolo vizioso che non poteva in ogni caso durare in eterno, ma sul quale i prevedibili effetti della nuova politica tariffaria ci aiuteranno a mio parere a rispondere alla prima domanda: chi sono gli analfabeti?
Michele Bossi
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