Church pocket/56. Volti di Quaresima: la Misericordia che rompe le pietre. L’adultera.

Viviamo in una società che spesso è rapida a giudicare, pronta a etichettare le persone per i loro sbagli. La voce più forte spesso è quella del pregiudizio, che dice: “Non sei altro che il tuo errore”. La storia dell’adultera nel Vangelo ci insegna qualcosa di diverso: il coraggio di non lasciarsi definire dalle cadute, la forza di incontrare uno sguardo che va oltre il peccato. È un tema che ritroviamo anche in alcune opere della nostra cultura, come in Filumena Marturano di Eduardo De Filippo. Filumena, una donna dal passato difficile, viene giudicata e condannata per le sue scelte di vita, ma nel suo grido di dignità e nella forza con cui rivendica il suo diritto a essere riconosciuta come madre e persona, risuona lo stesso bisogno di redenzione e verità che troviamo nel Vangelo. Celebre la sua affermazione: "Io so che cos’è ‘a vita! Io so che significa essere umiliata, disprezzata…" Un grido di chi non vuole essere ridotta ai propri errori, ma riconosciuta nella complessità della propria umanità. Anche lei, come la donna adultera, ci insegna che nessuno dovrebbe essere definito per sempre dal proprio passato. Filumena si ribella a chi vuole ridurla a una sola dimensione della sua vita e afferma con forza: "I figli so' figli! E so' tutti uguali!" Un grido che riecheggia il messaggio di Gesù: nessuno è solo il suo errore, nessuno è condannato per sempre.
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Nel Vangelo di Giovanni, troviamo una scena carica di tensione: mentre Gesù è tra le folle, una donna viene trascinata davanti a Lui, accusata di adulterio. I farisei e gli scribi vogliono metterlo alla prova: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Nella Legge, Mosè ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” (Gv 8,4-5). Gesù non risponde subito. Si china e scrive per terra, un gesto enigmatico che sposta l'attenzione dal peccato della donna alla coscienza di ciascuno dei presenti. Poi si alza e dice la famosa frase, entrata anche nel gergo comune: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7). Uno a uno, i farisei, se ne vanno, delusi. Rimangono solo Gesù e la donna. Nessuna pietra è stata lanciata. Gesù le dice: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” Lei risponde: “Nessuno, mio Signore”. E Gesù conclude: “Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più” (Gv 8,10-11).
Quelle parole di Gesù, “Neanch'io ti condanno”, risuonano come un sussurro disarmante nella storia umana. Disamano i farisei, disarmano la donna, disarmano la folla. Il silenzio intorno a queste parole si taglia. Non sono semplicemente parole di conforto, ma granata di misericordia che frantuma le logiche del giudizio e della condanna umana. Gesù non ignora il peccato della donna, ma lo supera: non si ferma a ciò che ha fatto, guarda chi è e, ancora di più, chi può diventare. Come osserva il cardinale Gianfranco Ravasi, questo gesto di Gesù è una “scelta di giustizia superiore”, che non si limita a una legge fredda, ma che risponde con la legge dell'amore e della verità. Ravasi sottolinea che il gesto di scrivere per terra è un atto di distacco dalla logica dell'accusa e un invito al silenzio interiore, per riflettere su sé stessi prima di giudicare gli altri. Anche il teologo Karl Rahner ci aiuta a comprendere questa profondità: per lui, il perdono non è mai un atto superficiale, ma un incontro con la verità più profonda di sé stessi e di Dio. Nel “Neanch'io ti condanno”, Rahner vede la manifestazione della grazia che ci incontra là dove la colpa sembra definirci, e invece ci libera.
In quelle parole tuonanti, Gesù rivela il cuore di Dio, che non si compiace della colpa né del castigo, ma del riscatto e della trasformazione. Non è una giustificazione, ma un atto di liberazione. Il peccato non viene negato, ma superato dall'amore che salva. Gesù sceglie di non fissarsi sull'errore, ma sulla possibilità di rinascita. Questo non significa che il peccato sia insignificante. Anzi, è proprio la sua gravità a rendere straordinario il gesto di Gesù. La vera giustizia, infatti, non si realizza con la punizione, ma con la possibilità di cambiare. Ecco perché aggiunge: “Va' e d'ora in poi non peccare più”. Non è un ordine freddo, ma un invito caldo e appassionato a vivere una vita nuova, libera dal peso della colpa e aperta alla luce del perdono. La fede non è un tribunale. Non è fatta di accuse o di pietre pronte a colpire. È un incontro con la misericordia che sa vedere oltre le apparenze e oltre gli sbagli. Gesù non ha paura di sporcarsi le mani con la fragilità umana; al contrario, è proprio lì che si rivela più chiaramente la sua grandezza.
Nella Quaresima, forse siamo chiamati a lasciare cadere le pietre che teniamo strette nelle mani: quelle del giudizio verso gli altri e quelle con cui ci colpiamo da soli. Perché, alla fine, Gesù ci incontra proprio lì, dove pensavamo di essere soli con i nostri errori, e ci dice: “Neanch'io ti condanno”. Come ci ricorda Santa Teresa d'Avila: "Dio non guarda tanto la grandezza delle opere quanto l'amore con cui sono compiute." E San Francesco d'Assisi ci insegna: "Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile." La misericordia non si ferma agli sbagli del passato, ma spalanca la porta a un futuro di grazia e rinnovamento. E forse, proprio in quella fragile breccia aperta dalla misericordia, risuona l'eco di un sussurro divino, come poesia scritta sul cuore: "Non temere di essere fragile, perché nelle crepe entra la luce." Perché la misericordia di Dio è come una carezza sul volto ferito dell'umanità, un bacio leggero che non cancella le ferite, ma le trasforma in cicatrici luminose, segni di una storia redenta dall'amore.
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Rubrica a cura di Pietro Santoro
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