Qui parcit nocentibus innocentes punit
Egregio Direttore,
ho seguito il caso del ragazzino vittima di bullismo, e ho pure letto con attenzione lo scritto di Gibertini e, se da un lato comprendo l’intento di evitare un approccio meramente punitivo, dall’altro non posso non esprimere una forte preoccupazione per la linea di pensiero che sembra emergere: prevenire senza reprimere. Il caso in questione è emblematico. Un ragazzino subisce episodi di bullismo all’interno della scuola, nessuno dei suoi compagni parla, il colpevole rimane nell’ombra e la scuola, invece di individuare chi è responsabile e intervenire con fermezza, sceglie di fare lezioni generiche sul rispetto e sulla convivenza civile. Come direbbe il conte Mascetti, delle gran supercazzole prematurate buone solo a lavare la coscienza dei dirigenti scolastici. Nel frattempo, chi è stato bullizzato si ritrova vittima due volte: prima degli atti subiti, poi del silenzio e dell’omertà che lo costringono ad abbandonare la scuola. Questa non è educazione alla convivenza. È resa. Si può davvero accettare che l’unica soluzione sia aspettare che il bullo "capisca" e maturi da solo, mentre la vittima deve farsi carico delle conseguenze? Si può accettare che il sistema scolastico si limiti a lezioni di buoni sentimenti, lasciando che il problema si risolva (o meglio, si nasconda) da sé? Prevenire è fondamentale, ma da solo non basta. Se la prevenzione non è accompagnata dalla repressione dei comportamenti dannosi, si trasforma in un invito all'impunità. E quando si arriva al punto in cui un bambino deve cambiare scuola perché gli adulti attorno a lui hanno scelto di non agire con decisione, allora non si sta educando nessuno, né il bullo, né i suoi complici, né i compagni silenziosi. Si sta solo trasmettendo un messaggio chiaro: chi fa del male non subisce conseguenze, chi lo subisce deve andarsene. La repressione, quando necessaria, non è vendetta, ma tutela. È giusto e doveroso occuparsi del recupero di chi ha sbagliato, ma la scuola non può diventare un luogo in cui i diritti della vittima vengono sistematicamente sacrificati per proteggere chi prevarica in virtù di una visione buonista per la quale i diritti prevalgono sui doveri. Non si può parlare di rieducazione del bullo senza prima aver ristabilito un concetto basilare: ci sono azioni che non si tollerano, ci sono limiti che non si superano. E quando si superano, si pagano le conseguenze. Diversamente, il messaggio che si manda è chiaro: chi si fa rispettare con la forza vince, chi subisce deve adattarsi o andarsene. E questo non è il mondo che vogliamo costruire per i nostri figli. Qualcuno, ben più saggio di noi, qualche anno fa ebbe a dire: Qui parcit nocentibus, innocentes punit (Chi risparmia i colpevoli, punisce gli innocenti)
ho seguito il caso del ragazzino vittima di bullismo, e ho pure letto con attenzione lo scritto di Gibertini e, se da un lato comprendo l’intento di evitare un approccio meramente punitivo, dall’altro non posso non esprimere una forte preoccupazione per la linea di pensiero che sembra emergere: prevenire senza reprimere. Il caso in questione è emblematico. Un ragazzino subisce episodi di bullismo all’interno della scuola, nessuno dei suoi compagni parla, il colpevole rimane nell’ombra e la scuola, invece di individuare chi è responsabile e intervenire con fermezza, sceglie di fare lezioni generiche sul rispetto e sulla convivenza civile. Come direbbe il conte Mascetti, delle gran supercazzole prematurate buone solo a lavare la coscienza dei dirigenti scolastici. Nel frattempo, chi è stato bullizzato si ritrova vittima due volte: prima degli atti subiti, poi del silenzio e dell’omertà che lo costringono ad abbandonare la scuola. Questa non è educazione alla convivenza. È resa. Si può davvero accettare che l’unica soluzione sia aspettare che il bullo "capisca" e maturi da solo, mentre la vittima deve farsi carico delle conseguenze? Si può accettare che il sistema scolastico si limiti a lezioni di buoni sentimenti, lasciando che il problema si risolva (o meglio, si nasconda) da sé? Prevenire è fondamentale, ma da solo non basta. Se la prevenzione non è accompagnata dalla repressione dei comportamenti dannosi, si trasforma in un invito all'impunità. E quando si arriva al punto in cui un bambino deve cambiare scuola perché gli adulti attorno a lui hanno scelto di non agire con decisione, allora non si sta educando nessuno, né il bullo, né i suoi complici, né i compagni silenziosi. Si sta solo trasmettendo un messaggio chiaro: chi fa del male non subisce conseguenze, chi lo subisce deve andarsene. La repressione, quando necessaria, non è vendetta, ma tutela. È giusto e doveroso occuparsi del recupero di chi ha sbagliato, ma la scuola non può diventare un luogo in cui i diritti della vittima vengono sistematicamente sacrificati per proteggere chi prevarica in virtù di una visione buonista per la quale i diritti prevalgono sui doveri. Non si può parlare di rieducazione del bullo senza prima aver ristabilito un concetto basilare: ci sono azioni che non si tollerano, ci sono limiti che non si superano. E quando si superano, si pagano le conseguenze. Diversamente, il messaggio che si manda è chiaro: chi si fa rispettare con la forza vince, chi subisce deve adattarsi o andarsene. E questo non è il mondo che vogliamo costruire per i nostri figli. Qualcuno, ben più saggio di noi, qualche anno fa ebbe a dire: Qui parcit nocentibus, innocentes punit (Chi risparmia i colpevoli, punisce gli innocenti)
Morpheus