Prevenire senza reprimere è spesso un esercizio inutile
Il titolare di un noto locale del centro città ha fatto affiggere cartelli all’entrata per invitare i clienti a mantenere un tono di voce contenuto stando all’esterno, ringraziandoli poi per la comprensione. L’intenzione è sicuramente apprezzabile ma il metodo è da bocciare senza appello. Perché sembra che mantenere un comportamento rispettoso sia un plus, non un dovere. Perché pare che tale comportamento sia a beneficio dei vicini e non dovuto semplicemente al rispetto della Legge. Abbiamo fatto presente l’incongruenza – rilevabile anche da carabinieri e agenti della locale, clienti assidui di tutto rispetto – ma né il sindaco Mattia Salvioni, impegnato in oratorie nelle scuole, né il comandante della vigilanza urbana Davide Fortunato Mondella, hanno mosso un appunto e dedicato al tema una riflessione.
Insomma la strategia che va per la maggiore è la prevenzione, parlare, educare, insegnare, tollerare, troncare, sopire. Ma è del tutto assente la tattica, inevitabile, della repressione.
Per il locale valgono: a) le norme di polizia locale, b) il piano di zonizzazione acustica (50 DB dopo le 22, non serve quindi un cartello ma, semmai, un fonometro), c) l’art.659 del codice penale.
E per la scuola coinvolta nel drammatico caso di bullismo? Perché qui arriviamo al cuore del tema di questo scritto.
Gli insegnanti ci hanno risposto con una lunga lettera sulla quale hanno assicurato l’impegno educativo, lo sforzo per far comprendere agli indisciplinati il rispetto per il compagno, l’esercizio continuo della persuasione di quanto sia deprecabile il bullismo. In altre parole, la strategia della prevenzione.
Ma, la repressione? Siamo certi che il responsabile del violento scherzo ai danni di un compagno sia ben noto. E quindi? Dove sta la punizione? Possibile che preside e corpo insegnanti non si rendano conto che assicurare l’impunità, passata la piena, renderà più audace il bullo? Che lo indurrà ad alzare l’asticella dello scherzo, aumentando così nel bullizzato il senso di paura, di terrore, di isolamento e, in ultima analisi la determinazione a cambiare scuola?
In altri tempi, bacchettate a parte, si procedeva con un cinque in condotta, anno ripetuto e espulsione. L’esempio repressivo, laddove le belle parole e i sermoni alla Mattia Salvioni non bastano, deve essere esemplare.
Una volta si diceva colpiscine uno per educarne cento. Magari suona sinistro (o destro come si preferisce). Ma almeno se ne punisca uno per convincere gli altri cento che certi gesti hanno conseguenze. Che il conto arriva sempre. Che non si sfugge dalle proprie azioni. Che non tutti i salmi vanno in gloria.
Insomma la strategia che va per la maggiore è la prevenzione, parlare, educare, insegnare, tollerare, troncare, sopire. Ma è del tutto assente la tattica, inevitabile, della repressione.
Per il locale valgono: a) le norme di polizia locale, b) il piano di zonizzazione acustica (50 DB dopo le 22, non serve quindi un cartello ma, semmai, un fonometro), c) l’art.659 del codice penale.
E per la scuola coinvolta nel drammatico caso di bullismo? Perché qui arriviamo al cuore del tema di questo scritto.
Gli insegnanti ci hanno risposto con una lunga lettera sulla quale hanno assicurato l’impegno educativo, lo sforzo per far comprendere agli indisciplinati il rispetto per il compagno, l’esercizio continuo della persuasione di quanto sia deprecabile il bullismo. In altre parole, la strategia della prevenzione.
Ma, la repressione? Siamo certi che il responsabile del violento scherzo ai danni di un compagno sia ben noto. E quindi? Dove sta la punizione? Possibile che preside e corpo insegnanti non si rendano conto che assicurare l’impunità, passata la piena, renderà più audace il bullo? Che lo indurrà ad alzare l’asticella dello scherzo, aumentando così nel bullizzato il senso di paura, di terrore, di isolamento e, in ultima analisi la determinazione a cambiare scuola?
In altri tempi, bacchettate a parte, si procedeva con un cinque in condotta, anno ripetuto e espulsione. L’esempio repressivo, laddove le belle parole e i sermoni alla Mattia Salvioni non bastano, deve essere esemplare.
Una volta si diceva colpiscine uno per educarne cento. Magari suona sinistro (o destro come si preferisce). Ma almeno se ne punisca uno per convincere gli altri cento che certi gesti hanno conseguenze. Che il conto arriva sempre. Che non si sfugge dalle proprie azioni. Che non tutti i salmi vanno in gloria.
Claudio Brambilla