Storia dell’alpino Giuseppe, disperso sulle rive del Don
E’ una storia come tante, un meratese disperso nella steppa russa durante la disastrosa ritirata nel 1943, raccontata nel libro di Mario Rigoni Stern “Il sergente nella neve”. Questa è una storia di casa nostra, la storia di Giuseppe Fumagalli, nato a Cicognola il 31 agosto del ’19, in via dell’Annunciata. L’ha raccontata Paolo Vitali, figlio di Rosetta Fumagalli, sorella maggiore di “zio Giuseppe” in un bel volumetto ricco di fotografie cui è abbinato un Dvd di 60 minuti.
Giuseppe frequenta, con scarso entusiasmo la scuola elementare dal 1925 al 1930 (VIII anno dell’era fascista). Per qualche anno aiuta i genitori con piccoli lavoretti rimediati ogni giorno fino al 1937 (XV anno era fascista) quando finalmente apre la sua bottega di barbiere nella casa paterna. Nel ’40 viene chiamato alle armi e arruolato tra gli alpini. “Oggi – scrive Vitali – si rimane meravigliati di come quei giovani ubbidivano e affrontavano pericoli immani con sufficiente serenità grazie a quello spirito di disciplina imparato in famiglia, sui banchi di scuola e in parrocchia. Essi accettavano l’autorità dei “Grandi” senza discutere, senza proferire alcun “se” e alcun “ma”, il loro era un mondo totalmente diverso dall’attuale”.
Poco più che ventenne Giuseppe veste la divisa grigio-verde del 5° reggimento alpini, battaglione Morbegno, 44.macompagnia. Con la nostalgia di chi parte, lascia la famiglia, la bottega, l’amata bicicletta e pure una ragazza a lungo corteggiata, va a combattere giovane contro giovani nessuno dei quali sa esattamente perché ci si debba sparare contro. In aereo a Brindisi poi a Tirana in Albania. La divisione Julia aveva invaso la Grecia come era nei piani di Mussolini per imitare i tedeschi che già avevano occupato anche la Romania ma rischiava di soccombere a causa della feroce resistenza degli aggrediti. I battaglioni alpini venivano così inviati in tutta fretta in Grecia senza però avere il tempo di trasportare anche salmerie, munizionamento e armi pesanti. Complice il gelo e la forza inaspettata di greci e albanesi furono moltissime le perdite tra gli alpini. Mussolini giunge in Albania il 2 marzo del 1941 per spronare le truppe a combattere i greci. Alla fine la resistenza viene sconfitta ma a caro prezzo: 120 morti, 184 dispersi, 510 feriti e 1.082 ammalati per assideramento. La campagna si conclude nell’aprile del ’41 e il 28 gli alpini vengono rimpatriati da Durazzo a Bari, fino poi a Roma per la sfilata della vittoria del 10 luglio. Dopo una breve tappa in Piemonte Giuseppe Fumagalli beneficia di una licenza agricola di 34 giorno, può trascorrere il Natale in famiglia ma già il 26 dicembre deve rientrare a Merano dove resta fino al 20 luglio 1942, quando deve partire per invadere la Russia. Pur consapevoli dei mezzi infinitamente inferiori a quelli dell’alleato tedesco Mussolini offre a Hitler un corpo di spedizione italiano. Male equipaggiato per un clima che spesso vede il termometro scendere sotto i 30 gradi.
Le Penne nere inizialmente destinate sul Caucaso vengono invece su ordine tedesco impiegate sul Don, in pianura: 229mila soldati schierati sulle rive dell’immenso fiume uno ogni sette metri.
Ma la steppa gelida non perdona e la Russia è tutt’altro che un obiettivo facile da conquistare. Tra il 19 e il 21 dicembre 1942 i carri armati russi riescono a aggirare lo schieramento italiano colpendo le truppe alle spalle. Il 15 gennaio 1943 una ventina di mezzi corazzati irrompe su Rossosch, sede del comando alpino. L’accerchiamento è completato. Disorientati, con scarsi equipaggiamenti, abiti del tutto inadeguati, pochi viveri e poche munizioni i soldati ricevono l’ordine dal gen. Gariboldi di ripiegare.
Inizia la tragica ritirata a piedi, centinaia di chilometri in mezzo alla neve, alla ricerca di Isbe in cui passare la notte, di qualche patata, di un bicchiere di latte. Una ritirata tremenda con temperature tra – 40 e -70 gradi. I russi continuano ad attaccare. Restano sul fronte le divisioni Julia e Cuneese a sacrificarsi mentre la Tridentina continua la ritirata fino a Nikolajewka dove si combatte la battaglia più cruenta e sanguinosa, destinata a arrossare le acque del Don. Gli alpini riescono a sfondare le linee russe rompendo l’accerchiamento. Ma ci sono ancora 700 chilometri da percorrere a piedi per raggiungere Slobon.
La drammatica ritirata, che Rigoni Stern racconta con puntualità impressionante si conclude nel maggio del ’43. Dei 229mila componenti dell’Armata Italiana in Russia si contarono 25mila morti, 70mila prigionieri di cui solamente 10mila restituiti, 60mila dispersi, morti nella neve o nei campi di prigionia.
Tra questi anche lo “zio Giuseppe”. “L’ultima sua cartolina – scrive Paolo Vitali nel libro dedicato allo zio con allegato anche un Dvd – è del 5 gennaio 1943”.Tra le tante testimonianze della follia fascista, costata centinaia di migliaia di giovani vite italiane, Vitali ripropone un passaggio del reduce Giosué Denti, tratto dal suo libro “La mia naja”.
“ . . il terreno era coperto di morti. Guardavo quelle facce: avevano gli occhi spalancati, fissavano qualcosa e chiesi a Peo: cosa volevano guardare quegli occhi, lo sai? Sì, mi rispose. Cercano di vedere quei porci maledetti che ci hanno mandato qui a fare la guerra. I russi facevano portare i morti lontano 500 metri dai ricoveri fino alle fosse comuni. La sera tutti, sottovoce, dicevano di aver trovato un cavallo morto abbandonato da russi e avevano preso dei pezzetti di carne, erano grossi non più di una noce se, in cambio davamo loro, qualcosa, bastava una calza, o altra merce. Cominciò questo scambio, la carne era gelata ma si poteva succhiare e alla fine si inghiottiva. Poteva aiutarci a salvare la ghirba. Questo commerciò durò un po’ di giorni, però ci raccomandavano di non dire niente a nessuno. Io e Peo cominciammo a insospettirci, una sera ci mettemmo in coda alla fila che rientrava, ci nascondemmo in modo da poter osservare cosa facevano quelli alla fossa dei cadaveri. Avevamo ragione: la carne che ci portavano non era di cavallo ma dei nostri soldati morti. Più tardi si seppe che anche in altri campi si verificavano casi di cannibalismo. La grande fame ci aveva ridotti anche a questo . . .”.
Giuseppe frequenta, con scarso entusiasmo la scuola elementare dal 1925 al 1930 (VIII anno dell’era fascista). Per qualche anno aiuta i genitori con piccoli lavoretti rimediati ogni giorno fino al 1937 (XV anno era fascista) quando finalmente apre la sua bottega di barbiere nella casa paterna. Nel ’40 viene chiamato alle armi e arruolato tra gli alpini. “Oggi – scrive Vitali – si rimane meravigliati di come quei giovani ubbidivano e affrontavano pericoli immani con sufficiente serenità grazie a quello spirito di disciplina imparato in famiglia, sui banchi di scuola e in parrocchia. Essi accettavano l’autorità dei “Grandi” senza discutere, senza proferire alcun “se” e alcun “ma”, il loro era un mondo totalmente diverso dall’attuale”.
Poco più che ventenne Giuseppe veste la divisa grigio-verde del 5° reggimento alpini, battaglione Morbegno, 44.macompagnia. Con la nostalgia di chi parte, lascia la famiglia, la bottega, l’amata bicicletta e pure una ragazza a lungo corteggiata, va a combattere giovane contro giovani nessuno dei quali sa esattamente perché ci si debba sparare contro. In aereo a Brindisi poi a Tirana in Albania. La divisione Julia aveva invaso la Grecia come era nei piani di Mussolini per imitare i tedeschi che già avevano occupato anche la Romania ma rischiava di soccombere a causa della feroce resistenza degli aggrediti. I battaglioni alpini venivano così inviati in tutta fretta in Grecia senza però avere il tempo di trasportare anche salmerie, munizionamento e armi pesanti. Complice il gelo e la forza inaspettata di greci e albanesi furono moltissime le perdite tra gli alpini. Mussolini giunge in Albania il 2 marzo del 1941 per spronare le truppe a combattere i greci. Alla fine la resistenza viene sconfitta ma a caro prezzo: 120 morti, 184 dispersi, 510 feriti e 1.082 ammalati per assideramento. La campagna si conclude nell’aprile del ’41 e il 28 gli alpini vengono rimpatriati da Durazzo a Bari, fino poi a Roma per la sfilata della vittoria del 10 luglio. Dopo una breve tappa in Piemonte Giuseppe Fumagalli beneficia di una licenza agricola di 34 giorno, può trascorrere il Natale in famiglia ma già il 26 dicembre deve rientrare a Merano dove resta fino al 20 luglio 1942, quando deve partire per invadere la Russia. Pur consapevoli dei mezzi infinitamente inferiori a quelli dell’alleato tedesco Mussolini offre a Hitler un corpo di spedizione italiano. Male equipaggiato per un clima che spesso vede il termometro scendere sotto i 30 gradi.
Le Penne nere inizialmente destinate sul Caucaso vengono invece su ordine tedesco impiegate sul Don, in pianura: 229mila soldati schierati sulle rive dell’immenso fiume uno ogni sette metri.
Ma la steppa gelida non perdona e la Russia è tutt’altro che un obiettivo facile da conquistare. Tra il 19 e il 21 dicembre 1942 i carri armati russi riescono a aggirare lo schieramento italiano colpendo le truppe alle spalle. Il 15 gennaio 1943 una ventina di mezzi corazzati irrompe su Rossosch, sede del comando alpino. L’accerchiamento è completato. Disorientati, con scarsi equipaggiamenti, abiti del tutto inadeguati, pochi viveri e poche munizioni i soldati ricevono l’ordine dal gen. Gariboldi di ripiegare.
Inizia la tragica ritirata a piedi, centinaia di chilometri in mezzo alla neve, alla ricerca di Isbe in cui passare la notte, di qualche patata, di un bicchiere di latte. Una ritirata tremenda con temperature tra – 40 e -70 gradi. I russi continuano ad attaccare. Restano sul fronte le divisioni Julia e Cuneese a sacrificarsi mentre la Tridentina continua la ritirata fino a Nikolajewka dove si combatte la battaglia più cruenta e sanguinosa, destinata a arrossare le acque del Don. Gli alpini riescono a sfondare le linee russe rompendo l’accerchiamento. Ma ci sono ancora 700 chilometri da percorrere a piedi per raggiungere Slobon.
La drammatica ritirata, che Rigoni Stern racconta con puntualità impressionante si conclude nel maggio del ’43. Dei 229mila componenti dell’Armata Italiana in Russia si contarono 25mila morti, 70mila prigionieri di cui solamente 10mila restituiti, 60mila dispersi, morti nella neve o nei campi di prigionia.
Tra questi anche lo “zio Giuseppe”. “L’ultima sua cartolina – scrive Paolo Vitali nel libro dedicato allo zio con allegato anche un Dvd – è del 5 gennaio 1943”.Tra le tante testimonianze della follia fascista, costata centinaia di migliaia di giovani vite italiane, Vitali ripropone un passaggio del reduce Giosué Denti, tratto dal suo libro “La mia naja”.
“ . . il terreno era coperto di morti. Guardavo quelle facce: avevano gli occhi spalancati, fissavano qualcosa e chiesi a Peo: cosa volevano guardare quegli occhi, lo sai? Sì, mi rispose. Cercano di vedere quei porci maledetti che ci hanno mandato qui a fare la guerra. I russi facevano portare i morti lontano 500 metri dai ricoveri fino alle fosse comuni. La sera tutti, sottovoce, dicevano di aver trovato un cavallo morto abbandonato da russi e avevano preso dei pezzetti di carne, erano grossi non più di una noce se, in cambio davamo loro, qualcosa, bastava una calza, o altra merce. Cominciò questo scambio, la carne era gelata ma si poteva succhiare e alla fine si inghiottiva. Poteva aiutarci a salvare la ghirba. Questo commerciò durò un po’ di giorni, però ci raccomandavano di non dire niente a nessuno. Io e Peo cominciammo a insospettirci, una sera ci mettemmo in coda alla fila che rientrava, ci nascondemmo in modo da poter osservare cosa facevano quelli alla fossa dei cadaveri. Avevamo ragione: la carne che ci portavano non era di cavallo ma dei nostri soldati morti. Più tardi si seppe che anche in altri campi si verificavano casi di cannibalismo. La grande fame ci aveva ridotti anche a questo . . .”.