Merate: da produttore di armi a sminatore. La conversione di Vito Alfieri Fontana alla domanda del figlio: “Papà tu sei un assassino?”
“Il problema non è sminare i campi, ma non fare le guerre”.
E' una sintesi fin troppo perfetta quella uscita dalla serata, organizzata dalla parrocchia e dall'oratorio di Merate, che ha avuto come protagonista Vito Alfieri Fontana, ex imprenditore nel settore dell'industria bellica, ora impegnato a bonificare i campi dagli ordigni inesplosi.
Una sintesi che si scontra, però, con una realtà che vede nel mondo oltre cinquanta conflitti armati in atto, di piccole e grandi dimensioni e dunque con più o meno vittime, dove la sofferenza non è direttamente proporzionale alla intensità della guerra. Dove si spara si muore sempre. E si fanno passi indietro.
Nell'auditorium Giusi Spezzaferri, sono stati tanti i giovani che hanno raccolto l'invito e hanno ascoltato la testimonianza di Alfieri, dopo l'introduzione di don Davide Serra e dell'assessore Valeria Marinari, e su stimolo delle domande poste dal giornalista Paolo Brivio.
Nato in una famiglia di imprenditori baresi, specializzati nel settore degli impianti elettrici e di illuminazione, approdano al settore bellico quando in una gara pubblica riservata alle aziende del sud viene chiesto di produrre contenitori per mine anticarro. La società partecipa, ottiene il finanziamento, entra nella “bolla” ed iniziano i grandi guadagni. “Senza alcuno scrupolo” ha precisato l'ospite, più volte nel corso della serata. Arrivano le richieste di progettare le mine anticarro e l'azienda vi fa fronte.
L'efficacia dell'ordigno è data dalla capacità di penetrare, dopo l'esplosione, da – 40° a +70° in una piastra di 50x50 cm e 5 mm di spessore. Più l'impatto era devastante e più la mina era costruita in maniera ottimale. “Non abbiamo mai fatto prove su manichini o scarponi” ha precisato Alfieri, non senza una incrinatura nel tono della sua voce “non ci interessava di provare l'effetto su qualcosa che assomigliasse a un uomo...”.
Un “cinismo” finalizzato al profitto che, a un certo punto, si è scontrato con la domanda disarmante del figlio “Ma papà tu produci armi? Allora tu sei un assassino? Perchè lo devi fare?” e con quella di un ragazzo durante un incontro organizzato da don Tonino Bello per Pax Christi “Ma lei quando va a dormire cosa sogna? Può sognare di fabbricare armi per essere felice?”.
Il processo di cambiamento in Vito Alfieri non è facile anche perchè la produzione di armi ha, all'origine, nobili giustificazioni oltre che giustificatori.
“Le mine inizialmente erano strumenti di difesa o stabilizzatori di fronti lungo le trincee. Poi con il Vietnam e l'Afghanistan sono diventate strumenti di guerriglia e di vendetta. Noi sapevamo tutto sulle mine, la loro violenza e portata ma a darci ordini erano i Ministeri e gli eserciti. Ogni esportazione doveva avere il nulla osta di sei enti, dalla Prefettura al Ministero, e poi all'unanimità veniva votata l'opportunità politica. La percentuale di persone che lavorano nell'industria degli armamenti è lo 0,05% della popolazione mondiale. Un club esclusivo, ma potentissimo”.
Incalzato dalle domande del moderatore, l'ex imprenditore ha raccontato che la decisione maturata e poi attuata di terminare con questo business, a seguito anche della convenzione di Ottawa con la messa al bando delle mine, e l'impossibilità di riconvertire l'azienda di 80 dipendenti (tutti riassorbiti) in una “sana” per questioni logistiche e di attrezzature, lo aveva condotto ad uno scontro con il padre.
“Un giorno ero in ufficio con mio papà. Arriva una telefonata che ci annuncia una commessa dall'Egitto e un ordine di 600mila mine antiuomo, l'equivalente di 10 miliardi di lire. Sui prodotti militari il guadagno è del 100%, su quelli civili del 20/25%. Ho detto no. Mio padre ha abbassato la testa e mi sono giocato, quel giorno, il rapporto con lui”.
A cambiarlo “dentro” sono stati gli incontri che, uno dietro l'altro, si sono inanellati sulla sua strada: Gino Strada che lo chiama dal Kurdistan e gli dice che sta succedendo un macello in quel paese e che bisogna fare qualcosa; don Tonino Bello lo invita a un convegno di Pax Christi e gli dice “ma è possibile che tu, trafficante di armi, non possa venire a parlare con me, vescovo?”; l'apparizione in sogno di Madre Teresa di Calcutta che lo guarda e scuote la testa e il giorno successivo l'incrocio casuale con lei all'aeroporto di Fiumicino.
Sono diverse folgorazioni che Vito Alfieri Fontana riceve sulla sua strada e che raccoglie, interiorizza e poi trasforma in una conversione concreta. Porta i libri in tribunale della sua azienda e inizia a viaggiare. Non più per rappresentare una azienda bellica ma per andare a raccogliere sminare quegli ordigni che erano stati la sua fortuna economica.
Con 6 team di 10 persone ciascuno inizia a controllare con metaldetector e le aste di sondaggio i campi minati, senza sosta, dalle 7 del mattino alle 17, per 15 anni. Senza pausa. E senza mai sbagliare perchè non è concesso.
“Abbiamo trovato migliaia di mine e messo in sicurezza 300/400mila persone. Ma servono tempo e attrezzature e garanzie per chi lavora in questo settore. Ma il vero problema non è sminare ma non fare più le guerre” ha concluso davanti a una platea silenziosa, riflessiva e anche per certi versi incredula.
E' una sintesi fin troppo perfetta quella uscita dalla serata, organizzata dalla parrocchia e dall'oratorio di Merate, che ha avuto come protagonista Vito Alfieri Fontana, ex imprenditore nel settore dell'industria bellica, ora impegnato a bonificare i campi dagli ordigni inesplosi.
Una sintesi che si scontra, però, con una realtà che vede nel mondo oltre cinquanta conflitti armati in atto, di piccole e grandi dimensioni e dunque con più o meno vittime, dove la sofferenza non è direttamente proporzionale alla intensità della guerra. Dove si spara si muore sempre. E si fanno passi indietro.
Nell'auditorium Giusi Spezzaferri, sono stati tanti i giovani che hanno raccolto l'invito e hanno ascoltato la testimonianza di Alfieri, dopo l'introduzione di don Davide Serra e dell'assessore Valeria Marinari, e su stimolo delle domande poste dal giornalista Paolo Brivio.
Nato in una famiglia di imprenditori baresi, specializzati nel settore degli impianti elettrici e di illuminazione, approdano al settore bellico quando in una gara pubblica riservata alle aziende del sud viene chiesto di produrre contenitori per mine anticarro. La società partecipa, ottiene il finanziamento, entra nella “bolla” ed iniziano i grandi guadagni. “Senza alcuno scrupolo” ha precisato l'ospite, più volte nel corso della serata. Arrivano le richieste di progettare le mine anticarro e l'azienda vi fa fronte.
L'efficacia dell'ordigno è data dalla capacità di penetrare, dopo l'esplosione, da – 40° a +70° in una piastra di 50x50 cm e 5 mm di spessore. Più l'impatto era devastante e più la mina era costruita in maniera ottimale. “Non abbiamo mai fatto prove su manichini o scarponi” ha precisato Alfieri, non senza una incrinatura nel tono della sua voce “non ci interessava di provare l'effetto su qualcosa che assomigliasse a un uomo...”.
Un “cinismo” finalizzato al profitto che, a un certo punto, si è scontrato con la domanda disarmante del figlio “Ma papà tu produci armi? Allora tu sei un assassino? Perchè lo devi fare?” e con quella di un ragazzo durante un incontro organizzato da don Tonino Bello per Pax Christi “Ma lei quando va a dormire cosa sogna? Può sognare di fabbricare armi per essere felice?”.
Il processo di cambiamento in Vito Alfieri non è facile anche perchè la produzione di armi ha, all'origine, nobili giustificazioni oltre che giustificatori.
“Le mine inizialmente erano strumenti di difesa o stabilizzatori di fronti lungo le trincee. Poi con il Vietnam e l'Afghanistan sono diventate strumenti di guerriglia e di vendetta. Noi sapevamo tutto sulle mine, la loro violenza e portata ma a darci ordini erano i Ministeri e gli eserciti. Ogni esportazione doveva avere il nulla osta di sei enti, dalla Prefettura al Ministero, e poi all'unanimità veniva votata l'opportunità politica. La percentuale di persone che lavorano nell'industria degli armamenti è lo 0,05% della popolazione mondiale. Un club esclusivo, ma potentissimo”.
Incalzato dalle domande del moderatore, l'ex imprenditore ha raccontato che la decisione maturata e poi attuata di terminare con questo business, a seguito anche della convenzione di Ottawa con la messa al bando delle mine, e l'impossibilità di riconvertire l'azienda di 80 dipendenti (tutti riassorbiti) in una “sana” per questioni logistiche e di attrezzature, lo aveva condotto ad uno scontro con il padre.
“Un giorno ero in ufficio con mio papà. Arriva una telefonata che ci annuncia una commessa dall'Egitto e un ordine di 600mila mine antiuomo, l'equivalente di 10 miliardi di lire. Sui prodotti militari il guadagno è del 100%, su quelli civili del 20/25%. Ho detto no. Mio padre ha abbassato la testa e mi sono giocato, quel giorno, il rapporto con lui”.
A cambiarlo “dentro” sono stati gli incontri che, uno dietro l'altro, si sono inanellati sulla sua strada: Gino Strada che lo chiama dal Kurdistan e gli dice che sta succedendo un macello in quel paese e che bisogna fare qualcosa; don Tonino Bello lo invita a un convegno di Pax Christi e gli dice “ma è possibile che tu, trafficante di armi, non possa venire a parlare con me, vescovo?”; l'apparizione in sogno di Madre Teresa di Calcutta che lo guarda e scuote la testa e il giorno successivo l'incrocio casuale con lei all'aeroporto di Fiumicino.
Sono diverse folgorazioni che Vito Alfieri Fontana riceve sulla sua strada e che raccoglie, interiorizza e poi trasforma in una conversione concreta. Porta i libri in tribunale della sua azienda e inizia a viaggiare. Non più per rappresentare una azienda bellica ma per andare a raccogliere sminare quegli ordigni che erano stati la sua fortuna economica.
Con 6 team di 10 persone ciascuno inizia a controllare con metaldetector e le aste di sondaggio i campi minati, senza sosta, dalle 7 del mattino alle 17, per 15 anni. Senza pausa. E senza mai sbagliare perchè non è concesso.
“Abbiamo trovato migliaia di mine e messo in sicurezza 300/400mila persone. Ma servono tempo e attrezzature e garanzie per chi lavora in questo settore. Ma il vero problema non è sminare ma non fare più le guerre” ha concluso davanti a una platea silenziosa, riflessiva e anche per certi versi incredula.
S.V.