Pagnano: Emanuele Fiano racconta il padre nel lager
L'esperienza di Nedo Fiano, il fiorentino attivista e scrittore, sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz, è stata testimoniata, nella serata di giovedì 9 gennaio, presso il teatro dell'oratorio di Pagnano, dal figlio Emanuele Fiano, architetto, politico, già deputato e presidente della comunità ebraica di Milano.
Una storia che l'uomo ha celato ai suoi figli per anni, mascherando dietro a innocue invenzioni, la terribile verità che si nascondeva dietro ai segni che costellavano il suo corpo. La matricola A5405 sull'avambraccio, si è trasformata nel modo in cui i papà si scrivevano il numero di telefono per non dimenticarlo, mentre l'alluce di un piede mozzato durante i lavori forzati e una gamba piena di buchi, causati da frustate, erano caratteristiche intrinseche dalla nascita. Emanuele scoprì la verità all'età di 14 anni, quando davanti ad un numeroso pubblico, il padre rivelò gli orrori subiti insieme ad altri milioni di ebrei.
Da quel giorno la vita di Nedo fu caratterizzata dalla memoria, dalla volontà di tramandare il suo vissuto per far si che non si ripetessero le ingiustizie perpetrate nei confronti di innocenti. Uno scherzo del destino ha però voluto che, negli ultimi anni di vita del fiorentino, deceduto il 19 dicembre del 2020 a 95 anni, Auschwitz, e più in generale la Shoah, venissero completamente cancellati dai suoi ricordi. Fortunatamente negli anni, intessendo lunghi colloqui con il padre, Emanuele è riuscito a raccogliere le rievocazioni di suo padre in diverse opere, tra cui “Il profumo di mio padre. L'eredità di un figlio della Shoah”, un rendiconto della condizione del campo di concentramento di Auschwitz, il più grande cimitero ebraico, oltre che di omosessuali, zingari, Rom, disabili, oppositori del regime e prigionieri di guerra.
Un racconto che ha inizio da Olderigo, il padre di Nedo, fante e prigioniero degli austriaci nella prima guerra mondiale, morto, così come la moglie Nella Castiglioni, nel 1944 ad Auschwitz, lager nel quale anche Nedo era prigioniero. Dopo l'emanazione delle leggi razziali nel 1938, a partire dall'8 settembre 1943 era iniziata in Italia la caccia all'ebreo, che ha avuto il suo momento più eclatante nel ghetto di Roma, dal quale vengono deportati più di mille ebrei romani. Dopo la notizia del sabato nero, il 16 ottobre 1943, la famiglia Fiano scappa dalla casa di Firenze e trova rifugio al di là dell'Arno, nella zona di Palazzo Pitti, pagando un uomo che li ospita per mesi sotto un porticato.
Nedo però non si arrese ai divieti, al contrario continuò ad uscire di nascosto ogni giorno per lavorare: aveva trovato un contatto a Prato per trasportare dei rotoli di stoffa da Firenze a Milano. Un via vai che andò avanti per quattro mesi finché un giorno, il 23 febbraio 1944, l'uomo viene avvicinato da due miliziani che gli chiedono di seguirlo. Nedo viene portato al carcere delle Murate a Firenze per due mesi e poi viene spostato a Carpi, in provincia di Modena, in un campo di concentramento, pronto per il transito verso quello di sterminio. Il giovane progettò una fuga con un amico, ma proprio nel giorno scelto per l'evasione, al campo arrivano i genitori e quindi Nedo decide di rimanere. I tre vengono portati in stazione il 16 maggio del 1944 e dopo un viaggio durato sette giorni e sette notti arrivano, con altri 600 ebrei ad Auschwitz.
Immediatamente all'arrivo, veniva scelto con un cenno del capo, chi doveva vivere e chi morire, di lì a pochi minuti, nella camera a gas. Una scena rimasta vivida per anni nella mente di Nedo è stata quella della madre, strappata dalle loro braccia per essere condotta alla morte. Nel lager sono stati gasati dieci membri della famiglia di Nedo Fiano: la madre Nella, il padre Olderigo, che perì di stenti dopo due mesi di lavori forzati, il fratello Enzo con la moglie e il figlio di 18 mesi Sergio, così come due zii Della Torre, i loro figli e la moglie di uno dei due. Nedo fu l'unico che ne uscì, in parte forse, grazie alla permanenza “facilitata” che si guadagnò subito, quando era in quarantena nella prima baracca. Mentre attendevano di sapere la loro sorte, nella stanza entrò un maresciallo nazista, che chiese chi conosceva il tedesco. Nedo improvvisamente ebbe una visione del nonno Alfredo, colui che gli aveva insegnato la lingua, che gli dava una spintarella e gli intimava di farsi avanti. Una scelta che lo portò a operare nel commando Kanada, il dipartimento che aveva il compito di accogliere i deportati sulla banchina di accesso. Un compito che gli permise di evitare parte dei lavori forzati, che comunque gli toccarono, al prezzo di mentire ogni giorno agli arrivati, tra cui la nonna, e osservare con impotenza le torture e la fine alla quale milioni andarono incontro.
Per anni Emanuele Fiano si è chiesto perchè il padre non abbia mai raccontato tutta la storia, non solo sui Nazisti e le crudeltà indicibili commesse, ma anche sui compagni, ridotti a comportamenti vili per poter sopravvivere. “Sono arrivato a darmi tre risposte. Inizialmente, sono sicuro che mio padre sapeva che fino ad una certa età per me sarebbe stato difficile capire e quindi aveva preferito tacere. Però penso anche che per molti, che come mio padre hanno vissuto questa terribile esperienza, il resoconto faceva male a loro, riportando alla mente situazioni terribili per le quali avevano paura di non essere creduti. Inoltre c'era la vergogna nell'essere sopravvissuti al posto di altri, senza capirne il perché”.
Dai racconti di Nedo Fiano è scaturita una lezione, che Emanuele si porta nel cuore. “Talvolta, nel rapporto con i genitori, le cose non dette sono ricche come quelle pronunciate. Lui non mi ha mai detto fino a dove può arrivare la natura dell'uomo e questo è uno dei temi su cui si ha il dovere di interrogarsi. Bisogna continuare a chiedersi fino a dove può spingersi l'uomo, per fare in modo che certe atrocità non accadano più”.
Una storia che l'uomo ha celato ai suoi figli per anni, mascherando dietro a innocue invenzioni, la terribile verità che si nascondeva dietro ai segni che costellavano il suo corpo. La matricola A5405 sull'avambraccio, si è trasformata nel modo in cui i papà si scrivevano il numero di telefono per non dimenticarlo, mentre l'alluce di un piede mozzato durante i lavori forzati e una gamba piena di buchi, causati da frustate, erano caratteristiche intrinseche dalla nascita. Emanuele scoprì la verità all'età di 14 anni, quando davanti ad un numeroso pubblico, il padre rivelò gli orrori subiti insieme ad altri milioni di ebrei.
Da quel giorno la vita di Nedo fu caratterizzata dalla memoria, dalla volontà di tramandare il suo vissuto per far si che non si ripetessero le ingiustizie perpetrate nei confronti di innocenti. Uno scherzo del destino ha però voluto che, negli ultimi anni di vita del fiorentino, deceduto il 19 dicembre del 2020 a 95 anni, Auschwitz, e più in generale la Shoah, venissero completamente cancellati dai suoi ricordi. Fortunatamente negli anni, intessendo lunghi colloqui con il padre, Emanuele è riuscito a raccogliere le rievocazioni di suo padre in diverse opere, tra cui “Il profumo di mio padre. L'eredità di un figlio della Shoah”, un rendiconto della condizione del campo di concentramento di Auschwitz, il più grande cimitero ebraico, oltre che di omosessuali, zingari, Rom, disabili, oppositori del regime e prigionieri di guerra.
Un racconto che ha inizio da Olderigo, il padre di Nedo, fante e prigioniero degli austriaci nella prima guerra mondiale, morto, così come la moglie Nella Castiglioni, nel 1944 ad Auschwitz, lager nel quale anche Nedo era prigioniero. Dopo l'emanazione delle leggi razziali nel 1938, a partire dall'8 settembre 1943 era iniziata in Italia la caccia all'ebreo, che ha avuto il suo momento più eclatante nel ghetto di Roma, dal quale vengono deportati più di mille ebrei romani. Dopo la notizia del sabato nero, il 16 ottobre 1943, la famiglia Fiano scappa dalla casa di Firenze e trova rifugio al di là dell'Arno, nella zona di Palazzo Pitti, pagando un uomo che li ospita per mesi sotto un porticato.
Nedo però non si arrese ai divieti, al contrario continuò ad uscire di nascosto ogni giorno per lavorare: aveva trovato un contatto a Prato per trasportare dei rotoli di stoffa da Firenze a Milano. Un via vai che andò avanti per quattro mesi finché un giorno, il 23 febbraio 1944, l'uomo viene avvicinato da due miliziani che gli chiedono di seguirlo. Nedo viene portato al carcere delle Murate a Firenze per due mesi e poi viene spostato a Carpi, in provincia di Modena, in un campo di concentramento, pronto per il transito verso quello di sterminio. Il giovane progettò una fuga con un amico, ma proprio nel giorno scelto per l'evasione, al campo arrivano i genitori e quindi Nedo decide di rimanere. I tre vengono portati in stazione il 16 maggio del 1944 e dopo un viaggio durato sette giorni e sette notti arrivano, con altri 600 ebrei ad Auschwitz.
Immediatamente all'arrivo, veniva scelto con un cenno del capo, chi doveva vivere e chi morire, di lì a pochi minuti, nella camera a gas. Una scena rimasta vivida per anni nella mente di Nedo è stata quella della madre, strappata dalle loro braccia per essere condotta alla morte. Nel lager sono stati gasati dieci membri della famiglia di Nedo Fiano: la madre Nella, il padre Olderigo, che perì di stenti dopo due mesi di lavori forzati, il fratello Enzo con la moglie e il figlio di 18 mesi Sergio, così come due zii Della Torre, i loro figli e la moglie di uno dei due. Nedo fu l'unico che ne uscì, in parte forse, grazie alla permanenza “facilitata” che si guadagnò subito, quando era in quarantena nella prima baracca. Mentre attendevano di sapere la loro sorte, nella stanza entrò un maresciallo nazista, che chiese chi conosceva il tedesco. Nedo improvvisamente ebbe una visione del nonno Alfredo, colui che gli aveva insegnato la lingua, che gli dava una spintarella e gli intimava di farsi avanti. Una scelta che lo portò a operare nel commando Kanada, il dipartimento che aveva il compito di accogliere i deportati sulla banchina di accesso. Un compito che gli permise di evitare parte dei lavori forzati, che comunque gli toccarono, al prezzo di mentire ogni giorno agli arrivati, tra cui la nonna, e osservare con impotenza le torture e la fine alla quale milioni andarono incontro.
Per anni Emanuele Fiano si è chiesto perchè il padre non abbia mai raccontato tutta la storia, non solo sui Nazisti e le crudeltà indicibili commesse, ma anche sui compagni, ridotti a comportamenti vili per poter sopravvivere. “Sono arrivato a darmi tre risposte. Inizialmente, sono sicuro che mio padre sapeva che fino ad una certa età per me sarebbe stato difficile capire e quindi aveva preferito tacere. Però penso anche che per molti, che come mio padre hanno vissuto questa terribile esperienza, il resoconto faceva male a loro, riportando alla mente situazioni terribili per le quali avevano paura di non essere creduti. Inoltre c'era la vergogna nell'essere sopravvissuti al posto di altri, senza capirne il perché”.
Dai racconti di Nedo Fiano è scaturita una lezione, che Emanuele si porta nel cuore. “Talvolta, nel rapporto con i genitori, le cose non dette sono ricche come quelle pronunciate. Lui non mi ha mai detto fino a dove può arrivare la natura dell'uomo e questo è uno dei temi su cui si ha il dovere di interrogarsi. Bisogna continuare a chiedersi fino a dove può spingersi l'uomo, per fare in modo che certe atrocità non accadano più”.
I.Bi.