Non prendete mio figlio, gente

Non prendete mio figlio,
gente,
non rapitemi il cuore,
non è un bosco,
non è un abete,
è soltanto una rosa tenera.
Non toccategli il cuore:
io sono sua madre,
per nove mesi
io l’ho costruito e amato.
Non straziatemi il grembo.
Torrenti di uomini soli,
non fate che il vostro odio
tocchi le sue laudi
così alte.

(Alda Merini, Magnificat, in Mistica d’amore, Milano 2008)

Alda Giuseppina Angela Merini finirà la sua terrena via crucis un anno dopo la pubblicazione di Mistica d’amore, il libro che raccoglie cinque suoi racconti in poesia di ispirazione religiosa. Rinascerà, Alda, nelle mani dei suoi lettori e persino degli studiosi, da pazza a “poeta”, come amava definirsi.
Molti dei suoi versi, che oggi spopolano sui social network come se fossero citazioni di cui fare sfoggio, sono disturbanti come la lucidità che solo i presunti folli hanno. 
In questi versi dà voce ai pensieri silenziosi e preoccupati di una giovanissima ragazza scavata dal dolore e dalla fatica del parto appena avvenuto. La folla dei pastori, la turba dei curiosi, qualche parola còlta al volo tra le congratulazioni (“Re del mondo”, “l’Atteso”): per lei che sa più di quello che persino il suo Giuseppe sa, e moltissimo di più di ciò che pastori, magi e angeli credono di capire, questo Natale è già una Pasqua. «È funesto a chi nasce il dì natale», scrive un altro poeta che ha ben conosciuto la passione del vivere: per questo «in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato».
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Alda capisce, e noi attraverso di lei, la tenerezza e il fastidio di questa giovanissima madre di nome Maria.
È la rustica ritrosia di tutte le madri infastidite dalle braccia e dagli occhi di chi vorrebbe portar loro via il bambino, “impadronirsene”, prenderlo in braccio, vezzeggiarlo, tormentarlo con motteggi ridicoli che in fin dei conti sono molesti (provate a pensare voi se qualcuno incominciasse a solleticarvi con un dito dicendo “bibibibi!” e facendo smorfie mostruose con gli occhi e con le labbra, dandovi pacche sul sedere, passandovi di mano in mano…!).
È la teologica consapevolezza della responsabilità che attende, in futuro, questo suo figlio.

Per questo le parole mute di Maria sono di rimprovero – quel «gente» è così sprezzante, così impotente – e di supplica.

L’aveva già detto un secolo prima un altro stravagante, quel Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri che tutti conosciamo come “Trilussa”: «La gente fa er presepe e nun me sente; / cerca sempre de fallo più sfarzoso, / però cià er core freddo e indifferente / e nun capisce che senza l’amore / è cianfrusaja che nun cià valore».
Ce lo ricorda Alda Merini: «Non prendete mio figlio […]. Non è un abete…», non è qualcosa che si possa sradicare dal suo terreno e portare altrove per abbellire chissà cosa, non è un albero a cui appendere palle e festoni e luci colorate per fare compagnia a «torrenti di uomini soli».
Chi ha fede e crede con consapevolezza non storpi il Natale con le sciocchezze che spesso i credenti – soprattutto i credenti – si inventano.
Chi non ha fede faccia lo stesso, con maggiore responsabilità: si può credere al racconto dei vangeli e alle vicende della storia o si può tacitare la ragione (non c’entra le fede: l’esistenza di Gesù di Nazareth e la sua ricaduta storica sono un dato di fatto, non una chimera per i creduloni), ma occorre rispettare il mistero fragile di un bambino.
Perché il Natale, per chi crede e anche per chi non crede, è questa cosa qua: una vita che nasce, che è di per sé e sempre un dono.
Stefano Motta
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