Church pocket/36. Stereotipi divini: perché Dio è tanto Padre quanto Madre
Come nel settembre del 1978 molti, ancora oggi, gridano all’eresia sentendo l’accostamento delle parole “Dio” e “madre”, tanto attenti alle parole del passato ma molto sordi alle parole del presente, quelle si che, a volte, gridano un po’ all’eresia, molte volte all’inutilità. Parole spesso vuote alle quali siamo oramai abituati da due lustri e quindi, quando sentiamo, leggiamo, ascoltiamo delle parole che abbiamo un leggero senso, non comprendendolo, gridiamo, scandalizzati come quei farisei che si stracciarono le vesti nel sinedrio. Un sinedrio mediatico che molto spesso diventa cattedra universitaria, che si spaccia per dottrina, vuota, come una Chiesa alla fine della messa. Ma almeno, dalla messa ne dovremmo uscire pieni di quella grazia, invocata e sin dal saluto introitale dal presidente della celebrazione. Ebbene sì, ancora oggi, quelle due parole, accostate, generano spesso tanti nasi storti e tante smorfie ma dicono ben oltre: ci raccontano una fede povera, una fede non “intelligata”. Sant'Agostino fonda il suo pensiero sul famoso assioma latino “Credo ut intelligam, intelligo ut credam” cioè “credo per capire e capisco per credere”, pur consapevole dei limiti umani nel concepire la pienezza dell’idea di Dio. Anche San Pietro, che di guida se ne intende, diceva:
“Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni. Ma fatelo con mansuetudine e rispetto, e avendo una buona coscienza; affinché quando sparlano di voi, rimangano svergognati quelli che calunniano la vostra buona condotta in Cristo” (Prima lettera di Pietro 3:15,17)
È tempo quindi di esplorare una dimensione altrettanto stimolante: quella di Dio che è anche Madre. Questo concetto, lungi dall'essere un'eresia o un'innovazione, affonda le radici nella tradizione biblica e nell'esperienza spirituale di milioni di credenti. Ma cosa significa realmente riconoscere Dio come Madre? In questo scritto, ci addentreremo in un viaggio di scoperta, svelando la dolcezza, la cura e la forza di un amore divino che abbraccia l'umanità in tutte le sue sfumature.
Per iniziare senza incorrere nell’eresia, partiamo dalla dottrina. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 239, recita:
«Chiamando Dio con il nome di «Padre», il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d'amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l'immagine della maternità, che indica ancor meglio l'immanenza di Dio, l'intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all'esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l'uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, pur essendone l'origine e il modello: nessuno è padre quanto Dio»
L'affermazione che la tenerezza paterna può essere espressa attraverso l'immagine della maternità è significativa. Questo passaggio enfatizza due caratteristiche di Dio: l’immanenza e l’intimità. Mentre la paternità può richiamare un'idea di trascendenza e autorità, la maternità sottolinea una dimensione di vicinanza, cura e intimità, leggendola sotto una chiave squisitamente biblica: la figura materna è spesso associata a una presenza calorosa e affettuosa, che si prende cura delle necessità emotive e fisiche. In questo la maternità suggerisce una relazione più profonda e personale tra Dio e l'umanità, evidenziando come Dio non sia solo un'autorità distante, ma anche un compagno che si prende cura e si interessa delle nostre vite. Quindi paragonare l’Amore di Dio a quello di una madre è blasfemia o eresia? Vediamolo anche nei testi biblici. Il Salmo 131 prega così: “Io sono come un bambino svezzato, in braccio a sua madre; come un bambino svezzato è l'anima mia”. Facciamone una brevissima esegesi. Qui il salmista usa l'immagine di un bambino per esprimere la sua tranquillità e serenità, trasmettendo un forte senso di sicurezza e protezione, poiché il bambino è completamente affidato alla cura della madre. L'idea è quella di un bambino che non deve preoccuparsi perché è nelle mani amorevoli della madre, così anche il credente trova sicurezza e tranquillità nella fiducia in Dio. Il profeta Isaia ci porta bene due immagini simili a quella del salmista:
«Può una madre dimenticare il suo bambino, così da non avere pietà del figlio delle sue viscere? Anche se costoro dovessero dimenticare, io non ti dimenticherò mai. Ecco, io ti ho scolpito sulle palme delle mie mani; le tue mura sono sempre davanti a me».
(Isaia 49:15-16)
In questa prima pericope, l’autore sacro evoca l'immagine di una donna e del suo bambino per descrivere la più profonda relazione di affetto e attaccamento che esista. Il legame tra madre e figlio è descritto come quasi innato e irrinunciabile. La domanda retorica che Dio si pone nello scritto del profeta sottolinea l'assurdità dell'idea che una madre possa dimenticare il proprio bambino. Anche nei casi in cui si verificano tali dimenticanze, il messaggio è che questo è un evento raro e drammatico, che contrasta con l'intento di Dio di non dimenticare mai il suo popolo. E comunque, nell’ipotesi che una madre dimentichi il figlio, Dio afferma che Lui non dimenticherà mai il suo popolo. Questa affermazione rassicura gli ebrei sull’amore costante e infinito di Dio, un amore che trascende qualsiasi relazione umana.
È nella seconda citazione che Isaia da il meglio di sé:
«Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all'abbondanza del suo seno. Poiché così dice il Signore: «Ecco io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati» (Isaia 66, 10-13)
Isaia 66 conclude il libro di Isaia, presentando una visione di speranza. Il profeta prevede la futura gloria di Gerusalemme e il ritorno degli esiliati, da Babilonia, promettendo che Dio si prenderà cura del suo popolo con amore e compassione. L'uso dell'immagine del seno materno esprime una profonda intimità: "succhiare al suo petto" – quello della personificazione della città di Gerusalemme – implica una relazione di protezione. Questa immagine rimanda all’idea di una madre che nutre e consola il proprio bambino, suggerendo che Dio stesso si prende cura del suo popolo con la stessa dolcezza. Utilizzando una figura materna, Dio si presenta come un consolatore premuroso, pronto a sostenere e nutrire coloro che soffrono.
Imprescindibile per continuare questo discorso è il passaggio attraverso la Teologia. Impossibile quindi non citare San Tommaso d’Aquino. Parlando di Dio, nel Commento al “De Trinitate” di Boezio, l’Aquinate afferma che “Dio è l'Essere supremo, il quale è puro atto” e ribadisce nella Summa Theologiae II, q2, 3: “Dio è l'Essere per eccellenza” ( II, q2, 3). Quindi se Dio è la totalità dell’essere, la pienezza dell’essere, perché, nel descriverlo gli attribuiamo solo la paternità? È vero: oggi sta vanendo il ruolo del padre che è solo autorità e il ruolo della madre che è solo dolcezza. Stereotipando questi ruoli familiari si rischia di non descriverli tutti e di cadere in generalizzazioni che si allontanano troppo dalla realtà. Quindi perché attribuire a Dio solo una parte del concetto di genitorialità e non attribuirgli la totalità dell’essenza della genitorialità stessa: Dio si è Padre, è Madre. Dio è genitore: è severo, ma amorevole; è consolazione ma fermezza. Allora si, tanto vere quanto profetiche sono state le parole di Giovanni Paolo I: “È papà; più ancora è madre” ma non solo. È tutt’e due.
Nonostante creda molto in questo pensiero, ad onore della cronaca, non posso omettere di citare la correzione di Papa Benedetto XVI, quando era Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, dice così a Misseri, in una intervista:
«Il Cristianesimo non è nostro, è la Rivelazione di Dio, è un messaggio che ci è stato consegnato e che non abbiamo il diritto di ricostruire a piacimento. Dunque, non siamo autorizzati a trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci. [...] Sono infatti convinto che ciò cui porta il femminismo nella sua forma radicale non è più il Cristianesimo che conosciamo, è una religione diversa.»
E nel suo libro “Gesù di Nazaret”, Ratzinger si pone direttamente la domanda che mi son fatto e che vi ho proposto in questo scritto. Sostenendo che la Bibbia confronta l'amore di Dio con l'amore di una madre, sottolinea altresì che mai, sia nell'Antico sia nel Nuovo Testamento, Dio è chiamato madre. Madre è nella Bibbia un'immagine di Dio, non un suo titolo. Inoltre sempre Benedetto XVI, citando Gesù, ci ricorda che nel suo insegnamento il Messia non ha mai chiamato Dio con l’appellativo di “Padre”.
Riconoscere Dio come genitore ha profonde implicazioni anche sulle relazioni umane. In un'epoca in cui le famiglie assumono molte forme diverse, l'immagine di Dio genitore può offrire conforto e supporto a coloro che si sentono emarginati o lontani da una tradizione ecclesiastica percepita come esclusiva. Poi continuiamo a chiamarlo come vogliamo. Dio Padre? Va benissimo ma credo debba maturare la consapevolezza che Dio Creatore può significare anche Dio Genitore. Se Dio è l'Essere supremo, perché limitarlo a un solo aspetto? La duplicità dell’immagine di Padre e di Madre non è solo una questione di linguaggio, ma una chiave per comprendere la totalità dell'amore divino. Lasciamo che le nostre concezioni di Dio crescano insieme a noi, sfidando i pregiudizi e abbracciando una realtà più profonda. Come possiamo sperare di essere testimoni di un amore universale se riduciamo Dio a una sola immagine? In un momento in cui la società cerca comprensione, Dio come Genitore, come Padre, come Madre, offre un modello di amore che è sia autorità che cura. Non abbiate paura di sfidare le convenzioni; la vera fede cresce solo dove l'amore abbraccia tutte le sue dimensioni.
“Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni. Ma fatelo con mansuetudine e rispetto, e avendo una buona coscienza; affinché quando sparlano di voi, rimangano svergognati quelli che calunniano la vostra buona condotta in Cristo” (Prima lettera di Pietro 3:15,17)
È tempo quindi di esplorare una dimensione altrettanto stimolante: quella di Dio che è anche Madre. Questo concetto, lungi dall'essere un'eresia o un'innovazione, affonda le radici nella tradizione biblica e nell'esperienza spirituale di milioni di credenti. Ma cosa significa realmente riconoscere Dio come Madre? In questo scritto, ci addentreremo in un viaggio di scoperta, svelando la dolcezza, la cura e la forza di un amore divino che abbraccia l'umanità in tutte le sue sfumature.
Per iniziare senza incorrere nell’eresia, partiamo dalla dottrina. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 239, recita:
«Chiamando Dio con il nome di «Padre», il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d'amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l'immagine della maternità, che indica ancor meglio l'immanenza di Dio, l'intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all'esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l'uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, pur essendone l'origine e il modello: nessuno è padre quanto Dio»
L'affermazione che la tenerezza paterna può essere espressa attraverso l'immagine della maternità è significativa. Questo passaggio enfatizza due caratteristiche di Dio: l’immanenza e l’intimità. Mentre la paternità può richiamare un'idea di trascendenza e autorità, la maternità sottolinea una dimensione di vicinanza, cura e intimità, leggendola sotto una chiave squisitamente biblica: la figura materna è spesso associata a una presenza calorosa e affettuosa, che si prende cura delle necessità emotive e fisiche. In questo la maternità suggerisce una relazione più profonda e personale tra Dio e l'umanità, evidenziando come Dio non sia solo un'autorità distante, ma anche un compagno che si prende cura e si interessa delle nostre vite. Quindi paragonare l’Amore di Dio a quello di una madre è blasfemia o eresia? Vediamolo anche nei testi biblici. Il Salmo 131 prega così: “Io sono come un bambino svezzato, in braccio a sua madre; come un bambino svezzato è l'anima mia”. Facciamone una brevissima esegesi. Qui il salmista usa l'immagine di un bambino per esprimere la sua tranquillità e serenità, trasmettendo un forte senso di sicurezza e protezione, poiché il bambino è completamente affidato alla cura della madre. L'idea è quella di un bambino che non deve preoccuparsi perché è nelle mani amorevoli della madre, così anche il credente trova sicurezza e tranquillità nella fiducia in Dio. Il profeta Isaia ci porta bene due immagini simili a quella del salmista:
«Può una madre dimenticare il suo bambino, così da non avere pietà del figlio delle sue viscere? Anche se costoro dovessero dimenticare, io non ti dimenticherò mai. Ecco, io ti ho scolpito sulle palme delle mie mani; le tue mura sono sempre davanti a me».
(Isaia 49:15-16)
In questa prima pericope, l’autore sacro evoca l'immagine di una donna e del suo bambino per descrivere la più profonda relazione di affetto e attaccamento che esista. Il legame tra madre e figlio è descritto come quasi innato e irrinunciabile. La domanda retorica che Dio si pone nello scritto del profeta sottolinea l'assurdità dell'idea che una madre possa dimenticare il proprio bambino. Anche nei casi in cui si verificano tali dimenticanze, il messaggio è che questo è un evento raro e drammatico, che contrasta con l'intento di Dio di non dimenticare mai il suo popolo. E comunque, nell’ipotesi che una madre dimentichi il figlio, Dio afferma che Lui non dimenticherà mai il suo popolo. Questa affermazione rassicura gli ebrei sull’amore costante e infinito di Dio, un amore che trascende qualsiasi relazione umana.
È nella seconda citazione che Isaia da il meglio di sé:
«Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all'abbondanza del suo seno. Poiché così dice il Signore: «Ecco io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati» (Isaia 66, 10-13)
Isaia 66 conclude il libro di Isaia, presentando una visione di speranza. Il profeta prevede la futura gloria di Gerusalemme e il ritorno degli esiliati, da Babilonia, promettendo che Dio si prenderà cura del suo popolo con amore e compassione. L'uso dell'immagine del seno materno esprime una profonda intimità: "succhiare al suo petto" – quello della personificazione della città di Gerusalemme – implica una relazione di protezione. Questa immagine rimanda all’idea di una madre che nutre e consola il proprio bambino, suggerendo che Dio stesso si prende cura del suo popolo con la stessa dolcezza. Utilizzando una figura materna, Dio si presenta come un consolatore premuroso, pronto a sostenere e nutrire coloro che soffrono.
Imprescindibile per continuare questo discorso è il passaggio attraverso la Teologia. Impossibile quindi non citare San Tommaso d’Aquino. Parlando di Dio, nel Commento al “De Trinitate” di Boezio, l’Aquinate afferma che “Dio è l'Essere supremo, il quale è puro atto” e ribadisce nella Summa Theologiae II, q2, 3: “Dio è l'Essere per eccellenza” ( II, q2, 3). Quindi se Dio è la totalità dell’essere, la pienezza dell’essere, perché, nel descriverlo gli attribuiamo solo la paternità? È vero: oggi sta vanendo il ruolo del padre che è solo autorità e il ruolo della madre che è solo dolcezza. Stereotipando questi ruoli familiari si rischia di non descriverli tutti e di cadere in generalizzazioni che si allontanano troppo dalla realtà. Quindi perché attribuire a Dio solo una parte del concetto di genitorialità e non attribuirgli la totalità dell’essenza della genitorialità stessa: Dio si è Padre, è Madre. Dio è genitore: è severo, ma amorevole; è consolazione ma fermezza. Allora si, tanto vere quanto profetiche sono state le parole di Giovanni Paolo I: “È papà; più ancora è madre” ma non solo. È tutt’e due.
Nonostante creda molto in questo pensiero, ad onore della cronaca, non posso omettere di citare la correzione di Papa Benedetto XVI, quando era Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, dice così a Misseri, in una intervista:
«Il Cristianesimo non è nostro, è la Rivelazione di Dio, è un messaggio che ci è stato consegnato e che non abbiamo il diritto di ricostruire a piacimento. Dunque, non siamo autorizzati a trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci. [...] Sono infatti convinto che ciò cui porta il femminismo nella sua forma radicale non è più il Cristianesimo che conosciamo, è una religione diversa.»
E nel suo libro “Gesù di Nazaret”, Ratzinger si pone direttamente la domanda che mi son fatto e che vi ho proposto in questo scritto. Sostenendo che la Bibbia confronta l'amore di Dio con l'amore di una madre, sottolinea altresì che mai, sia nell'Antico sia nel Nuovo Testamento, Dio è chiamato madre. Madre è nella Bibbia un'immagine di Dio, non un suo titolo. Inoltre sempre Benedetto XVI, citando Gesù, ci ricorda che nel suo insegnamento il Messia non ha mai chiamato Dio con l’appellativo di “Padre”.
Riconoscere Dio come genitore ha profonde implicazioni anche sulle relazioni umane. In un'epoca in cui le famiglie assumono molte forme diverse, l'immagine di Dio genitore può offrire conforto e supporto a coloro che si sentono emarginati o lontani da una tradizione ecclesiastica percepita come esclusiva. Poi continuiamo a chiamarlo come vogliamo. Dio Padre? Va benissimo ma credo debba maturare la consapevolezza che Dio Creatore può significare anche Dio Genitore. Se Dio è l'Essere supremo, perché limitarlo a un solo aspetto? La duplicità dell’immagine di Padre e di Madre non è solo una questione di linguaggio, ma una chiave per comprendere la totalità dell'amore divino. Lasciamo che le nostre concezioni di Dio crescano insieme a noi, sfidando i pregiudizi e abbracciando una realtà più profonda. Come possiamo sperare di essere testimoni di un amore universale se riduciamo Dio a una sola immagine? In un momento in cui la società cerca comprensione, Dio come Genitore, come Padre, come Madre, offre un modello di amore che è sia autorità che cura. Non abbiate paura di sfidare le convenzioni; la vera fede cresce solo dove l'amore abbraccia tutte le sue dimensioni.
Rubrica a cura di Pietro Santoro