Church pocket/35. Grazia, Graziella e Grazia di Dio – parte terza e finale
“Grazia, Graziella e… Grazia di Dio”: traslitterando un giochino linguistico popolare, vorrei cercare di racchiude il tema finale del discorso sui miracoli, che spesso, nella storia, è stato anche motivo di scontri teologici. Per molti, la parola “Grazia” è un nome proprio, spesso di derivazione meridionale, per alcuni “grazia” evoca leggerezza, bellezza, eleganza. Per alti dice dolcezza, affetto, intimità. Nella teologia cattolica, la Grazia è qualcosa di ancora più misterioso e potente: è il dono dell’amore divino, un filo che lega a Dio e che si svela nei piccoli e grandi racconti delle pagine della nostra vita. Possiamo riconoscerla? E, soprattutto, come?
P arlando di miracoli, a mio avviso, non si può prescindere dal concetto di Grazia. Per entrare nel vivo della questione, partiamo dalla fine, dal concetto di Grazia nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Al n. 2021, il Catechismo recita: “La grazia è l'aiuto che Dio ci dà perché rispondiamo alla nostra vocazione di diventare suoi figli adottivi. Essa ci introduce nell'intimità della vita trinitaria” e continuando al n. 2022 dice: “L'iniziativa divina nell'opera della grazia previene, prepara e suscita la libera risposta dell'uomo. La grazia risponde alle profonde aspirazioni della libertà umana; la invita a cooperare con essa e la perfeziona”. Detto più semplicemente, quindi, la grazia è il dono gratuito di Dio che rende l'essere umano capace di partecipare alla vita divina e questa partecipazione rende la persona figlia di Dio. La grazia non è solo un dono morale ma una vera e propria comunione, unione con Dio, che avviene attraverso l'infusione della grazia santificante nell'anima. Questa intimità con la Trinità viene sperimentata concretamente nei sacramenti, attraverso i quali la grazia di Dio opera.
Nel battesimo, ad esempio, si riceve lo Spirito Santo, che stabilisce una relazione personale e viva con le tre Persone divine, inaugurando una vita nuova e introducendo nella realtà trinitaria. Lo si evince chiaramente nelle parole rivolte al catecumeno quando riceve l’unzione del Sacro Crisma dal celebrante:
«Dio onnipotente, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, ti ha liberato dal peccato e ti ha fatto rinascere dall'acqua e dallo Spirito Santo, unendoti al suo popolo; egli stesso ti consacra con il crisma di salvezza, perché inserito in Cristo, sacerdote, re e profeta, sia sempre membra del suo corpo per la vita eterna».
Per questo il battesimo è il sacramento che ci rende figli di Dio ma, da solo, ovviamente, non può bastare: non basta iscrivermi all’università per conseguire la laurea. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle lettere paoline, la vocazione ad essere figli adottivi di Dio è legata strettamente a Cristo, il Figlio unigenito del Padre. Attraverso la grazia, i cristiani vengono uniti a Cristo in modo profondo e personale, diventando “figli nel Figlio.” Questa unione con Cristo dà la capacità al popolo di Dio di rivolgersi a Dio come Padre, partecipando della stessa relazione filiale che Cristo ha con il Padre. Per questo, essendo figli di Dio per mezzo di Cristo, Maria, madre di Cristo, viene definita la “Madre nostra”. Solo la grazia rende possibile questa comunione filiale, che va oltre la semplice somiglianza: la relazione con Dio non è “come quella di un padre verso un figlio” ma è pienamente genitorialità e figliolanza, relazione resa possibile dall’azione dello Spirito Santo. In questa dinamica è proprio lo Spirito attore protagonista: secondo San Paolo, lo Spirito grida in noi “Abbà, Padre” (Romani 8,15), perché è attraverso lo Spirito Santo che possiamo rivolgerci a Dio con la stessa familiarità e amore che Cristo ha per il Padre. Lo Spirito, quindi, non è solo un “aiuto dal pubblico” ma è colui che rende possibile la partecipazione alla vita divina. I miracoli, in questa dinamica relazione, sono segni che “parlano”. Non sono inutili atti di attestazione di potenza fine a se stessi, ma veri e propri squarci, finestre o porte per vedere ed entrare oltre. Nei Vangeli, Gesù compie miracoli per mostrare che Lui è il Figlio di Dio, come negli esempi proposti dell’Emorroissa e del figlio della vedova di Nain: Gesù restituisce la vita fisica, ma in realtà intende portare chi osserva verso una “vita spirituale”, invitando alla fede in Lui. Un miracolo non solo stupisce, ma agisce come vettore di grazia, ossia come strumento di Dio che entra nel cuore delle persone. Per esempio, la risurrezione di Lazzaro (Giovanni 11) è un evento passionalmente drammatico che non restituisce solo la vita fisica a Lazzaro, ma fa entrare i presenti nell’Amore di Dio, forte più di ogni cosa, più della morte stessa. Il miracolo, quindi, come strumento della Grazia, non si limita a risolvere una situazione momentaneamente drammatica ma apre all'amore di Dio. I miracoli, aprendoci all’amore di Dio, rivelano il desiderio di Dio di entrare in relazione con l’uomo. Mi piace immaginarli come i gesti che due innamorati si fanno nei primi tempi della conoscenza per entrare in relazione tra di loro.
Giovanni Paolo I, nel suo breve pontificato, con parole semplici ma taglienti, ha stigmatizzato, a mio parere, il concetto di Grazia di Dio, nell’Angelus del 10 settembre 1978:
«Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore».
(Giovanni Paolo I, Angelus Domini, Domenica, 10 settembre 1978)
Giovanni Paolo I ha mostrato una sensibilità particolare per l'immagine femminile in Dio, enfatizzando l’importanza della misericordia. Ha presentato un Dio in termini umani che rivelano il Suo amore paterno e materno, evidenziando come Dio si prenda cura dell'umanità in modo affettuoso e premuroso. Il Papa del sorriso ha esemplificato la grazia di Dio come un amore che protegge, nutre e sostiene, caratteristiche storicamente e comunemente associate alla maternità. La concezione di Dio come "Madre" può servire a riconoscere che la divinità si manifesta anche in forme che vanno oltre la tradizione patriarcale, per abbracciare l’interezza dell’umanità e le sue esperienze. Un rapporto confermato, dottrinalmente, anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica che al n. 239, recita: «conviene ricordare che Dio (…) non è né uomo né donna (…) trascende pertanto la paternità e la maternità umane». Una verità riconosciuta fin dagli antichi Concili, come, ad esempio, quello di Toledo (XI, nel 675), che prendendo le distanze sia dal monoteismo patriarcale, sia dal panteismo matriarcale stabilì che il Figlio fosse generato e messo al mondo de utero patris.
Il nostro viaggio, grazie allo spunto datoci da Angela, è partito dai miracoli ed è arrivato al concetto di Grazia. Questo breve percorso ci ha portato a riconoscere Dio come un genitore affettuoso. Se la grazia di Dio è un abbraccio caloroso che ci avvolge, allora perché non immaginare Dio con le sfumature di una madre che ci consola? Di quella madre da cui corriamo, in lacrime, quando, correndo in cortile, ci sbucciamo le ginocchia, cadendo? Mentre riflettiamo su questo, ci prepariamo ad affrontare, nel prossimo scritto, un'altra affascinante questione: come possiamo comprendere la duplicità – nella stessa Trinità - di Dio come Padre e Madre nel contesto delle famiglie moderne e con il concetto di genitorialità in continua evoluzione e cambiamento?
P arlando di miracoli, a mio avviso, non si può prescindere dal concetto di Grazia. Per entrare nel vivo della questione, partiamo dalla fine, dal concetto di Grazia nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Al n. 2021, il Catechismo recita: “La grazia è l'aiuto che Dio ci dà perché rispondiamo alla nostra vocazione di diventare suoi figli adottivi. Essa ci introduce nell'intimità della vita trinitaria” e continuando al n. 2022 dice: “L'iniziativa divina nell'opera della grazia previene, prepara e suscita la libera risposta dell'uomo. La grazia risponde alle profonde aspirazioni della libertà umana; la invita a cooperare con essa e la perfeziona”. Detto più semplicemente, quindi, la grazia è il dono gratuito di Dio che rende l'essere umano capace di partecipare alla vita divina e questa partecipazione rende la persona figlia di Dio. La grazia non è solo un dono morale ma una vera e propria comunione, unione con Dio, che avviene attraverso l'infusione della grazia santificante nell'anima. Questa intimità con la Trinità viene sperimentata concretamente nei sacramenti, attraverso i quali la grazia di Dio opera.
Nel battesimo, ad esempio, si riceve lo Spirito Santo, che stabilisce una relazione personale e viva con le tre Persone divine, inaugurando una vita nuova e introducendo nella realtà trinitaria. Lo si evince chiaramente nelle parole rivolte al catecumeno quando riceve l’unzione del Sacro Crisma dal celebrante:
«Dio onnipotente, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, ti ha liberato dal peccato e ti ha fatto rinascere dall'acqua e dallo Spirito Santo, unendoti al suo popolo; egli stesso ti consacra con il crisma di salvezza, perché inserito in Cristo, sacerdote, re e profeta, sia sempre membra del suo corpo per la vita eterna».
Per questo il battesimo è il sacramento che ci rende figli di Dio ma, da solo, ovviamente, non può bastare: non basta iscrivermi all’università per conseguire la laurea. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle lettere paoline, la vocazione ad essere figli adottivi di Dio è legata strettamente a Cristo, il Figlio unigenito del Padre. Attraverso la grazia, i cristiani vengono uniti a Cristo in modo profondo e personale, diventando “figli nel Figlio.” Questa unione con Cristo dà la capacità al popolo di Dio di rivolgersi a Dio come Padre, partecipando della stessa relazione filiale che Cristo ha con il Padre. Per questo, essendo figli di Dio per mezzo di Cristo, Maria, madre di Cristo, viene definita la “Madre nostra”. Solo la grazia rende possibile questa comunione filiale, che va oltre la semplice somiglianza: la relazione con Dio non è “come quella di un padre verso un figlio” ma è pienamente genitorialità e figliolanza, relazione resa possibile dall’azione dello Spirito Santo. In questa dinamica è proprio lo Spirito attore protagonista: secondo San Paolo, lo Spirito grida in noi “Abbà, Padre” (Romani 8,15), perché è attraverso lo Spirito Santo che possiamo rivolgerci a Dio con la stessa familiarità e amore che Cristo ha per il Padre. Lo Spirito, quindi, non è solo un “aiuto dal pubblico” ma è colui che rende possibile la partecipazione alla vita divina. I miracoli, in questa dinamica relazione, sono segni che “parlano”. Non sono inutili atti di attestazione di potenza fine a se stessi, ma veri e propri squarci, finestre o porte per vedere ed entrare oltre. Nei Vangeli, Gesù compie miracoli per mostrare che Lui è il Figlio di Dio, come negli esempi proposti dell’Emorroissa e del figlio della vedova di Nain: Gesù restituisce la vita fisica, ma in realtà intende portare chi osserva verso una “vita spirituale”, invitando alla fede in Lui. Un miracolo non solo stupisce, ma agisce come vettore di grazia, ossia come strumento di Dio che entra nel cuore delle persone. Per esempio, la risurrezione di Lazzaro (Giovanni 11) è un evento passionalmente drammatico che non restituisce solo la vita fisica a Lazzaro, ma fa entrare i presenti nell’Amore di Dio, forte più di ogni cosa, più della morte stessa. Il miracolo, quindi, come strumento della Grazia, non si limita a risolvere una situazione momentaneamente drammatica ma apre all'amore di Dio. I miracoli, aprendoci all’amore di Dio, rivelano il desiderio di Dio di entrare in relazione con l’uomo. Mi piace immaginarli come i gesti che due innamorati si fanno nei primi tempi della conoscenza per entrare in relazione tra di loro.
Giovanni Paolo I, nel suo breve pontificato, con parole semplici ma taglienti, ha stigmatizzato, a mio parere, il concetto di Grazia di Dio, nell’Angelus del 10 settembre 1978:
«Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore».
(Giovanni Paolo I, Angelus Domini, Domenica, 10 settembre 1978)
Giovanni Paolo I ha mostrato una sensibilità particolare per l'immagine femminile in Dio, enfatizzando l’importanza della misericordia. Ha presentato un Dio in termini umani che rivelano il Suo amore paterno e materno, evidenziando come Dio si prenda cura dell'umanità in modo affettuoso e premuroso. Il Papa del sorriso ha esemplificato la grazia di Dio come un amore che protegge, nutre e sostiene, caratteristiche storicamente e comunemente associate alla maternità. La concezione di Dio come "Madre" può servire a riconoscere che la divinità si manifesta anche in forme che vanno oltre la tradizione patriarcale, per abbracciare l’interezza dell’umanità e le sue esperienze. Un rapporto confermato, dottrinalmente, anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica che al n. 239, recita: «conviene ricordare che Dio (…) non è né uomo né donna (…) trascende pertanto la paternità e la maternità umane». Una verità riconosciuta fin dagli antichi Concili, come, ad esempio, quello di Toledo (XI, nel 675), che prendendo le distanze sia dal monoteismo patriarcale, sia dal panteismo matriarcale stabilì che il Figlio fosse generato e messo al mondo de utero patris.
Il nostro viaggio, grazie allo spunto datoci da Angela, è partito dai miracoli ed è arrivato al concetto di Grazia. Questo breve percorso ci ha portato a riconoscere Dio come un genitore affettuoso. Se la grazia di Dio è un abbraccio caloroso che ci avvolge, allora perché non immaginare Dio con le sfumature di una madre che ci consola? Di quella madre da cui corriamo, in lacrime, quando, correndo in cortile, ci sbucciamo le ginocchia, cadendo? Mentre riflettiamo su questo, ci prepariamo ad affrontare, nel prossimo scritto, un'altra affascinante questione: come possiamo comprendere la duplicità – nella stessa Trinità - di Dio come Padre e Madre nel contesto delle famiglie moderne e con il concetto di genitorialità in continua evoluzione e cambiamento?
Rubrica a cura di Pietro Santoro