La carta ribaltata del "Narciso" di Caravaggio

Dico subito alcune cose ovvie:

  1. Non mi interessa il dibattito sull’attribuzione a Caravaggio dello splendido dipinto esposto fino al 29 novembre a Villa Confalonieri, a Merate, per la generosità lungimirante della fondazione “Costruiamo il futuro” e l’intelligente passione di Giuseppe Procopio, “Beppe” per gli amici, cioè anche per me. Che sia di mano del Merisi – come stabilito da Longhi nel ’19 – o di altri (Giovanni Antonio Galli detto “lo Spadarino”, o Orazio Gentileschi, il papà dell’Artemisia), importa poco: sarebbe meno bello? Ne rimarremmo forse meno incantati? Spero di no.
  2. Non amo la decontestualizzazione delle opere: credo fortemente che un quadro, come un libro o una scultura, viva dell’ambiente in cui è esposto, riceva luce e fascino dai suoi colleghi vicini a lui, si possa leggere meglio all’interno del percorso di una collezione, o di un museo vasto. Ma se c’è un quadro che filologicamente ben sopporta e anzi addirittura esige uno spazio monografico è proprio questo. Per il soggetto – narcisistico, ça va sans dire – e per l’intelligente allestimento che a Merate è stato creato: si “entra” al cospetto del dipinto, isolato e valorizzato dalla scenografia avvolgente e intima. E lo specchio ai suoi piedi è una validissima intuizione sulla quale, poi tornerò.
  3. Non è la prima volta che la Brianza lecchese ospita piccole gemme artistiche: l’iniziativa lecchese del “Capolavoro per Lecco”, che negli ultimi anni ha esposto pregevoli lavori minori di  Michelangelo, Beato Angelico, Lotto, Tintoretto, ha fatto scuola. E Merate ha saputo fare meglio: un dipinto universalmente conosciuto e accesso gratuito. Questo è il vero capolavoro.
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Poi mi occupo un po’ del mio, che è la letteratura.

Guardo il dipinto di Caravaggio e non è il racconto di Ovidio che mi torna alla mente. La scelta del pittore di isolare il momento dello sguardo nell’acqua della fonte ha tagliato tutti gli altri orpelli (i pastori, la vendetta della ninfa Eco innamorata respinta, gli attrezzi da caccia di Narciso che compaiono nelle opere di altri pittori): c’è solo il ragazzo e l’acqua. O l’acqua e il ragazzo.
Il quadro così simmetricamente diviso in due, con la figura ritratta specularmente come se fosse un fante delle carte da gioco, appartiene a quelle opere d’arte che in teoria non sapresti da che parte guardare, da quale verso appendere. Esiste un verso corretto per la carta del fante, un alto e un basso?
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Ricordo una performance di Afran nell’auditorium meratese sulla sceneggiatura teatrale a partire da un mio romanzo: Afran dipingeva con il suo stile pastoso e ferino, danzando sul palco mentre il pubblico capiva e non capiva. Solo alla fine, quando la musica cessava e Afran voltava l’enorme disco sul quale era appuntata la tela, quel volto che lui aveva dipinto al contrario, a testa in giù, prendeva forma e riconoscibilità.

Chi guarda chi, allora, in questo quadro di Caravaggio?

Lo sa bene Oscar Wilde, l’autore che più di ogni altro ha incarnato – con la conseguente sofferenza – quello che oggi chiameremmo “narcisismo”, che ha saputo ridare vita a Narciso, chiamandolo Dorian, mettendolo di fronte a un suo ritratto così bello da farlo impazzire. È su questo cambio di prospettiva che costruisce la piccola poesia in prosa The disciple:

“Ma Narciso era bello?” domanda lo stagno alle ninfe del bosco.
“Chi altri meglio di te potrebbe saperlo?” gli rispondono sorprese.
“Ma io amavo Narciso – dice lo stagno – perché tutte le volte che si stendeva sulle mie sponde e mi guardava, nello specchio dei suoi occhi vedevo sempre specchiata la mia bellezza”.
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Lo intuiva Umberto Saba, che aveva bene in mente questo Caravaggio quanto scrive la sua Narciso al fonte [perdonerete la pedanteria delle sottolineature ma mi sono utili per rendere da subito evidenti alcune suggestioni]:

Quando giunse Narciso al suo destino 
– dai pastori deserto e dalle greggi 
nell’ombra di un boschetto azzurro fonte – 
subito si chinò sullo specchiante. 
Oh, il bel volto adorabile!  
Le frondi 
importune scostò, cercò la bocca 
che cercava la sua viva anelante. 
Il bacio che gli rese era di gelo. 
Sbigottí. Ritornò al suo cieco errore. 
Perché caro agli dèi si mutò in fiore  
bianco sulla sua tomba. 
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E Saba aveva in mente Montale (la raccolta Mediterranee di Saba è del 1946, Ossi di seppia è del 1925), da cui riprende l’idea del bacio all’immagine evanescente nascosta nell’acqua: 

Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride. 
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride la ruota,
ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

Credo che lo sapesse anche Leopardi, di fronte a quella siepe che fu per lui più specchio che ostacolo, e che gli restituì quella vertigine “ove per poco il cor non si spaura” (“Sbigottì”, dice Saba) e quella sensazione di liquido smarrimento: “il naufagrar m’è dolce in questo mare”.
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Stagno o pozzo (come lo specchio circolare che l’allestimento meratese ha messo proprio ai piedi del quadro), abisso o tomba (“il suo destino” nella poesia di Saba, il bacio “di gelo” che è presagio connotativo di morte, non solo informazione denotativa del fatto che la fonte fosse bella fresca, il fondo “atro” in Montale), è quest’acqua a cui Caravaggio ha riservato metà quadro che mi affascina, come e forse più del ragazzo chino su di essa. 
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È quel ritratto “non finito”, perché non perfettamente delineato, perché il tremolio dell’acqua smussa la nettezza dei tratti, ad essere infinito. È di quest’acqua, non di sé stesso, che Narciso si innamora: della possibilità di compiersi, di riconoscersi, alzarsi ed essere davvero sé stesso. 

Lo sapeva bene Shakespeare. Lo scrive nel Sonetto III

Guarda nel tuo specchio e di’ al volto che ci vedi
che adesso è il tempo che quel volto ne formi un altro;
se ora non rinnovi il suo fresco aspetto,
inganni il mondo...

Mi scosto con fatica dal quadro. Chi sono davvero io? Cosa sono stato finora? Cosa sono chiamato a poter ancora essere?
Stefano Motta
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