LIBRI CHE RIMARRANNO/108: dietro le quinte del "Gattopardo" con "La principessa di Lampedusa" di Ruggero Cappuccio
“Che cosa possiamo fare ora? Come dobbiamo vivere?”
“Possiamo solo scrivere,” disse Beatrice a voce bassa.
“Scrivere?”, rispose Stefano.
“Sì, scrivere. Ma ci sono due modi per farlo. Possiamo scrivere sulla carta o sul corpo di qualcuno che amiamo.”Alle tre e mezzo del pomeriggio del 9 maggio 1943 una donna in tailleur di velluto nero, Borsalino color crema con veletta, una borsina a tracolla con la catena d’argento attraversa con una valigia di cuoio la Palermo appena sventrata dai bombardamenti degli Alleati, raggiunge il cortile di un palazzo glorioso, e cala qualcosa nel pozzo, per nasconderlo.
Si chiama Beatrice Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò, ha settant’anni anni, è la madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore di un capolavoro immenso, “Il Gattopardo”.
È ritornato fugacemente sulla bocca dei più di recente, a causa della morte di Alain Delon che interpretava Tancredi nel film di Luchino Visconti, e Ruggero Cappuccio nel suo “La principessa di Lampedusa” (Feltrinelli 2024, pp. 360, Euro 20,00) ci porta dietro le quinte non del film, ma del romanzo.
Prima del principe Giuseppe Tomasi c’è la principessa sua madre, testimone della fine più prosaica che tragica di più mondi: quello della barocca fierezza siciliana e quello della colpevole vacuità di una nobiltà italiana prona ai privilegi aviti.
Mentre la Seconda guerra finisce grazie al paradosso delle bombe alleate che devastano quello che sarebbero dovuti venire a liberare e salvare, con il referendum del ’46 finisce anche l’illusione monarchica, e scompaiono i titoli nobiliari.
Palazzo Lampedusa in rovina in cui Beatrice si ostina ad abitare, che cerca di riassettare, a cui restituisce eleganza, non nascondendone le ferite, illuminando addirittura i dipinti slabbrati e le voragini dei soffitti, diventa il simbolo di un’era, e chiara ispirazione per quel Palazzo Salina, altrettanto sontuoso e altrettanto decadente, in cui vivrà il principe Fabrizio in un’altra epoca che fu ugualmente di passaggio, quella in cui i “liberatori” garibaldini in camicia rossa vennero a salvare – dissero – la Sicilia.
Chi conosce e ama “Il Gattopardo” godrà nella lettura del romanzo di Cappuccio.
Ma non occorre questa lettura previa. Il libro di Cappuccio sta in piedi sulle proprie gambe, come storia di emancipazione e libertà. Nonostante il titolo, la vera protagonista è la giovane Eugenia Bonanno, ventitré anni, figlia dell’avvocato Bonanno, già studentessa di Fisica che il padre ha promessa sposa a tale Guerrera figlio di un faccendiere con cui il Bonanno è in affari (serve che dica di che tipo?), e che tiene pressoché rinchiusa in casa in attesa del giorno del fidanzamento. Dalla sua finestra sul cortile Eugenia vede la principessa, si incuriosisce, scende di soppiatto a portare nel palazzo deserto ora una ricotta, ora dell’altro cibo, “sfama” – sconosciuta – quella donna misteriosa ed elegante, prima che il loro incontro diventi salvifico per lei stessa.
È un romanzo di donne forti questo, capaci di lottare contro i soprusi della società e del mondo. Beatrice contro i ladri, contro i soldati nazisti, contro gli speculatori immobiliari, Eugenia contro i due ragazzotti che arrivano a duellare per lei, contro il padre, contro la natura purificante dei Nebrodi.
È un romanzo di uomini deboli. A partire dal “principe rosso” Alessandro Tasca di Cutò, fratello di Beatrice, socialista, idealista, spirito libero e per questo sconfitto. Per finire con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che pare irrisoluto e atarassico, offuscato dalla personalità prorompente e invadente della madre. Lei sta preparando “un” capolavoro per lui.
C’è questa filigrana talora gotica – si sa da subito cosa c’è nella cassetta calata nel pozzo e grazie a Cappuccio si evita la banalità del colpo di scena finale – talaltra psicanalitica che percorre il romanzo dandogli tensione e problematicità. Beatrice avrebbe potuto benissimo essere il “tipo” della nobile siciliana orgogliosa e retriva, e invece è un “personaggio”, sfuggente e problematico. Positivo? Non serve che lo sia. Il suo atteggiamento nei confronti di Eugenia, Angelica volitiva e sfuggente, è quantomeno pedagogicamente opinabile: la guida, la obbliga, la forza, la comanda. Ne sortirà del bene, ma il bene eterodiretto è davvero una conquista?
Ho trovato ammirevole l’impianto, ammaliante il linguaggio, decadente il clima, moderni i temi.
Pesanti i dialoghi, spesso ai limiti dell’inverosimile quanto a durata e cervellotici quanto a contenuti.
Eppure non ho avuto la tentazione di saltarli, in un libro intrigante, da leggere assolutamente.
“Possiamo solo scrivere,” disse Beatrice a voce bassa.
“Scrivere?”, rispose Stefano.
“Sì, scrivere. Ma ci sono due modi per farlo. Possiamo scrivere sulla carta o sul corpo di qualcuno che amiamo.”Alle tre e mezzo del pomeriggio del 9 maggio 1943 una donna in tailleur di velluto nero, Borsalino color crema con veletta, una borsina a tracolla con la catena d’argento attraversa con una valigia di cuoio la Palermo appena sventrata dai bombardamenti degli Alleati, raggiunge il cortile di un palazzo glorioso, e cala qualcosa nel pozzo, per nasconderlo.
Si chiama Beatrice Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò, ha settant’anni anni, è la madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore di un capolavoro immenso, “Il Gattopardo”.
È ritornato fugacemente sulla bocca dei più di recente, a causa della morte di Alain Delon che interpretava Tancredi nel film di Luchino Visconti, e Ruggero Cappuccio nel suo “La principessa di Lampedusa” (Feltrinelli 2024, pp. 360, Euro 20,00) ci porta dietro le quinte non del film, ma del romanzo.
Prima del principe Giuseppe Tomasi c’è la principessa sua madre, testimone della fine più prosaica che tragica di più mondi: quello della barocca fierezza siciliana e quello della colpevole vacuità di una nobiltà italiana prona ai privilegi aviti.
Mentre la Seconda guerra finisce grazie al paradosso delle bombe alleate che devastano quello che sarebbero dovuti venire a liberare e salvare, con il referendum del ’46 finisce anche l’illusione monarchica, e scompaiono i titoli nobiliari.
Palazzo Lampedusa in rovina in cui Beatrice si ostina ad abitare, che cerca di riassettare, a cui restituisce eleganza, non nascondendone le ferite, illuminando addirittura i dipinti slabbrati e le voragini dei soffitti, diventa il simbolo di un’era, e chiara ispirazione per quel Palazzo Salina, altrettanto sontuoso e altrettanto decadente, in cui vivrà il principe Fabrizio in un’altra epoca che fu ugualmente di passaggio, quella in cui i “liberatori” garibaldini in camicia rossa vennero a salvare – dissero – la Sicilia.
Chi conosce e ama “Il Gattopardo” godrà nella lettura del romanzo di Cappuccio.
Ma non occorre questa lettura previa. Il libro di Cappuccio sta in piedi sulle proprie gambe, come storia di emancipazione e libertà. Nonostante il titolo, la vera protagonista è la giovane Eugenia Bonanno, ventitré anni, figlia dell’avvocato Bonanno, già studentessa di Fisica che il padre ha promessa sposa a tale Guerrera figlio di un faccendiere con cui il Bonanno è in affari (serve che dica di che tipo?), e che tiene pressoché rinchiusa in casa in attesa del giorno del fidanzamento. Dalla sua finestra sul cortile Eugenia vede la principessa, si incuriosisce, scende di soppiatto a portare nel palazzo deserto ora una ricotta, ora dell’altro cibo, “sfama” – sconosciuta – quella donna misteriosa ed elegante, prima che il loro incontro diventi salvifico per lei stessa.
È un romanzo di donne forti questo, capaci di lottare contro i soprusi della società e del mondo. Beatrice contro i ladri, contro i soldati nazisti, contro gli speculatori immobiliari, Eugenia contro i due ragazzotti che arrivano a duellare per lei, contro il padre, contro la natura purificante dei Nebrodi.
È un romanzo di uomini deboli. A partire dal “principe rosso” Alessandro Tasca di Cutò, fratello di Beatrice, socialista, idealista, spirito libero e per questo sconfitto. Per finire con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che pare irrisoluto e atarassico, offuscato dalla personalità prorompente e invadente della madre. Lei sta preparando “un” capolavoro per lui.
C’è questa filigrana talora gotica – si sa da subito cosa c’è nella cassetta calata nel pozzo e grazie a Cappuccio si evita la banalità del colpo di scena finale – talaltra psicanalitica che percorre il romanzo dandogli tensione e problematicità. Beatrice avrebbe potuto benissimo essere il “tipo” della nobile siciliana orgogliosa e retriva, e invece è un “personaggio”, sfuggente e problematico. Positivo? Non serve che lo sia. Il suo atteggiamento nei confronti di Eugenia, Angelica volitiva e sfuggente, è quantomeno pedagogicamente opinabile: la guida, la obbliga, la forza, la comanda. Ne sortirà del bene, ma il bene eterodiretto è davvero una conquista?
Ho trovato ammirevole l’impianto, ammaliante il linguaggio, decadente il clima, moderni i temi.
Pesanti i dialoghi, spesso ai limiti dell’inverosimile quanto a durata e cervellotici quanto a contenuti.
Eppure non ho avuto la tentazione di saltarli, in un libro intrigante, da leggere assolutamente.
Rubrica a cura del prof. Stefano Motta