Questa società educa alla comunità?
Mentre il teatrino della politica ( p minuscolo), in simbiosi con la gran parte del Circo mediatico (che ne è l'effetto oppure la causa?), si trastullano inseguendo l'affaire Sangiuliano, quello che è successo a Paderno Dugnano continua ad interpellarci tutti.
Anche su questo gravissimo episodio si è scatenata una ridda di opinioni sia a sfondo psicologico, quando non psichiatrico, che sociologico a cui mi guardo bene di aggiungere la mia.
Una cosa però mi sembra assai degna di interesse e cioè quella frase, a mio parere illuminante, di Don Rigoldi, cappellano emerito dell'Istituto carcerario minorile Beccaria di Milano, in cui, in risposta ad una specifica domanda dell'intervistatore, sottolineava la fondamentale importanza dell'educare alla Comunità e alla responsabilità costruttiva interrelazione, esattamente l'opposto di una visione individualistica.
Pur nella selva delle tante componenti che possono interagire sul malessere, non solo di giovani e giovanissimi, che non possono certamente essere ricondotte semplicisticamente ad uniche causalità, mi permetto di trasformare l'impegnativa affermazione di Don Rigoldi in un esplicito interrogativo:
Mediamente questa Società educa alla Comunità?
La risposta che mi do è no, semmai è tutt'altro.
Non che manchino apprezzabilissime ambiti e pratiche che promuovono e supportano questa visione comunitaria ma apparentemente nella costruzione dell'immaginario collettivo sembrano purtroppo essere sempre più minoritarie.
Minoritarie quando non tacciate quantomeno di ingenuità utopica: sì, belle cose e begli ideali ma non realmente applicabili se si vuol vivere nel mondo reale perché in questa Società competitiva ognuno fa il proprio interesse.
Diciamo quindi che il verbo dominante sembra non solo assecondare ma addirittura orientare ad una dimensione auto affermativa dove l'Io prevale e il Noi viene banalizzato, relegandolo spesso ad una forma di moralità buonista e d'altri tempi.
Del resto questa è una società che ha investito sull'individualismo estremo anche per ragioni economiche oltre che di “controllo” del dissenso.
Certo non arrivo a dire qualunquisticamente che la tragedia di Paderno Dugnano sia colpa della Società violenta e dello spaesamento che sta producendo in sempre più tanti, ma che, come in altri sempre più frequenti e inquietanti casi, vi abbia un po' concorso, ritengo debba essere perlomeno oggetto di attenta riflessione.
Tradotto: se, per esempio, la famiglia è, o perlomeno dovrebbe essere, la prima palestra di socialità e quindi la prima fonte di educazione alla Comunità ma i giovani respirano altro nel quotidiano, come non porsi il problema dei modelli, a partire da quelli mediatici, che costruiscono l'immaginario collettivo?
Se l'altro è un competitore e se il modello di riferimento è , costi quel che costi, l'uomo di successo come possiamo pensare, con il solo e pur necessario valore della concreta contro-testimonianza, di contrastare tale visione? Se ad ogni livello – sia micro che macro- il prepotente, di fatto, viene spesso premiato dal “consenso” se non addirittura dall'ammirazione per la sua forza e “scaltrezza” come può il diritto uguale per tutti, specie per i più deboli, essere credibile?
E come, perlomeno in parte, non comprendere coloro che registrando tutto ciò cercano di adeguarsi?
Occorre invece non rassegnarsi all'esistente ma, quantomeno all'alba del terzo millennio, dimostrare e soprattutto praticare un'altra logica personale e collettiva.
Anche su questo gravissimo episodio si è scatenata una ridda di opinioni sia a sfondo psicologico, quando non psichiatrico, che sociologico a cui mi guardo bene di aggiungere la mia.
Una cosa però mi sembra assai degna di interesse e cioè quella frase, a mio parere illuminante, di Don Rigoldi, cappellano emerito dell'Istituto carcerario minorile Beccaria di Milano, in cui, in risposta ad una specifica domanda dell'intervistatore, sottolineava la fondamentale importanza dell'educare alla Comunità e alla responsabilità costruttiva interrelazione, esattamente l'opposto di una visione individualistica.
Pur nella selva delle tante componenti che possono interagire sul malessere, non solo di giovani e giovanissimi, che non possono certamente essere ricondotte semplicisticamente ad uniche causalità, mi permetto di trasformare l'impegnativa affermazione di Don Rigoldi in un esplicito interrogativo:
Mediamente questa Società educa alla Comunità?
La risposta che mi do è no, semmai è tutt'altro.
Non che manchino apprezzabilissime ambiti e pratiche che promuovono e supportano questa visione comunitaria ma apparentemente nella costruzione dell'immaginario collettivo sembrano purtroppo essere sempre più minoritarie.
Minoritarie quando non tacciate quantomeno di ingenuità utopica: sì, belle cose e begli ideali ma non realmente applicabili se si vuol vivere nel mondo reale perché in questa Società competitiva ognuno fa il proprio interesse.
Diciamo quindi che il verbo dominante sembra non solo assecondare ma addirittura orientare ad una dimensione auto affermativa dove l'Io prevale e il Noi viene banalizzato, relegandolo spesso ad una forma di moralità buonista e d'altri tempi.
Del resto questa è una società che ha investito sull'individualismo estremo anche per ragioni economiche oltre che di “controllo” del dissenso.
Certo non arrivo a dire qualunquisticamente che la tragedia di Paderno Dugnano sia colpa della Società violenta e dello spaesamento che sta producendo in sempre più tanti, ma che, come in altri sempre più frequenti e inquietanti casi, vi abbia un po' concorso, ritengo debba essere perlomeno oggetto di attenta riflessione.
Tradotto: se, per esempio, la famiglia è, o perlomeno dovrebbe essere, la prima palestra di socialità e quindi la prima fonte di educazione alla Comunità ma i giovani respirano altro nel quotidiano, come non porsi il problema dei modelli, a partire da quelli mediatici, che costruiscono l'immaginario collettivo?
Se l'altro è un competitore e se il modello di riferimento è , costi quel che costi, l'uomo di successo come possiamo pensare, con il solo e pur necessario valore della concreta contro-testimonianza, di contrastare tale visione? Se ad ogni livello – sia micro che macro- il prepotente, di fatto, viene spesso premiato dal “consenso” se non addirittura dall'ammirazione per la sua forza e “scaltrezza” come può il diritto uguale per tutti, specie per i più deboli, essere credibile?
E come, perlomeno in parte, non comprendere coloro che registrando tutto ciò cercano di adeguarsi?
Occorre invece non rassegnarsi all'esistente ma, quantomeno all'alba del terzo millennio, dimostrare e soprattutto praticare un'altra logica personale e collettiva.
Germano Bosisio