Church Pocket/27. Dietro l'Altare: storia di un ex sacerdote - seconda parte
Per questa rassegna ho chiesto anche ad un conoscente, che chiameremo Matteo, ex parroco di una grande città del Sud Italia. Non si è sentito di scrivere la sua testimonianza ma mi ha concesso di ascoltare la sua storia e fargli delle domande davanti a uno spritz in Porta Romana. Matteo, nome di fantasia che lui stesso ha scelto “perché significa “donato da Dio”, racconta il suo percorso vocazionale, iniziato con entusiasmo all’età di 14 anni, con il Seminario Minore: "Entrare in seminario era la cosa che più volevo a quella età. Sentivo forte la chiamata di servire Dio nella parrocchia." Durante i suoi anni di formazione, Matteo trova nel Seminario Minore un luogo di crescita umana e spirituale ma anche di conflitto interiore. "Il seminario è stato un periodo di grande intensità spirituale, ma ogni giorno mi sentivo diviso". La sua storia è una finestra sincera e toccante sulla vita sacerdotale e sulle difficoltà affrontate lungo il cammino. Una volta ordinato sacerdote, Matteo si dedica con passione al suo ministero, in una grande parrocchia di una grande città del sud, come Viceparroco: “Sentivo un fuoco dentro, sembrava di avere tutta la forza del mondo. In effetti avevo solo 24 anni, ero prete, avevo coronato il sogno della mia vita, il sogno di mia madre e il sogno di tutto il mio paesello di origine. Tutti mi vedevano già prete sin dalla mia infanzia”. Il viaggio di nozze finisce presto: "Amavo la mia parrocchia e il mio lavoro come prete, amavo tornare in canonica e cadere sul letto distrutto, senza manco togliere la tonaca ma sentivo che qualcosa mancava nella mia vita". Matteo cerca di trovare equilibrio attraverso la preghiera e l'accompagnamento spirituale, ma più va avanti e più le sue insicurezze sono un macigno che alla sera gli opprime i polmoni, gli toglie il respiro. Con il senno di poi ha capito che quelli erano attacchi di panico. "Pregavo regolarmente, più regolarmente di prima, sentivo il bisogno di quegli attimi di silenzio, davanti al Tabernacolo nella mia enorme Chiesa". Il lavoro va bene, Matteo raggiunge grandi obbiettivi nella sua parrocchia tanto che il Vescovo decide di nominarlo parroco di una media parrocchia, circa 10.000 abitanti, a 28 anni. “Tra la nomina e il mio ingresso ricordo le notti in bianco, a volte piangevo senza saperne il motivo: ero onorato per questo traguardo ma nello stesso tempo mi sentivo terrorizzato. Sapevo, come so, che il Ministero Presbiterale è cosa ardua, cosa grande e di responsabilità soprattutto davanti a Dio. E quel “davanti a Dio” mi ricopriva di paure e di dubbio. Più pregavo e più non sentivo nulla, aridità, gelo, freddo. La preghiera per me era sempre stata come un abbraccio, quello della mia cara mamma, dove ti senti sicuro. Negli ultimi anni, invece, era un freddo vento di bora, una pioggia gelida che penetra sotto la camicia, attraversando la schiena”. Matteo diventa parroco, una grande festa: quella comunità era rimasta senza guida per più di un anno dopo la morte improvvisa del precedente parroco. Per questo, quella Chiesa, attendeva quel prete giovane, di cui tanto si era sentito bene parlare. E questo aumentava la pressione su Don Matteo. I primi anni va tutto liscio: pur continuando a vivere l’aridità nella preghiera e sentendo come l’assenza di Dio nel suo cuore, si occupa della cura delle anime e risveglia la vita parrocchiale. "Amavo celebrare l’Eucarestia, ascoltare le confessioni, visitare i malati e organizzare attività per i giovani. Tutte le volte che nelle mie mani il pane diventava Corpo di Cristo, pregavo affinché si facesse sentire nel mio cuore, che tornasse quel calore di quel fuoco della prima ora. Ma nulla. I fedeli mi dicevano che celebravo intensamente ma non immaginavano quello che io stavo vivendo. Essere parroco significa spesso anche portare i pesi degli altri, ascoltare i loro problemi e cercare di offrire conforto. A volte soffri con loro. Ma chi ascolta il prete? Chi si prende cura della sua anima?" Le difficoltà continuarono. "Ho iniziato a sentire una crescente insoddisfazione e un senso di vuoto. A un certo punto mi sembrava di recitare una parte, di vivere una vita che non mi apparteneva più. La mia fede era salda ma la mia vocazione, una volta così forte, iniziava a vacillare”. A questo punto del racconto devo confidare di essermi tanto commosso, a volte anche insieme a Matteo. Sono ferite, queste, che davvero non si rimarginano mai. La mia e quella di Matteo son sicuramente diverse ma sono nello stesso punto della nostra anima. Ho sentito molta empatia e non ho faticato a capire quello che stava provando.
Dopo tutti questi anni di lotte interiori, dodici per la precisione, Don Matteo prese nel suo cuore la decisione più difficile della sua vita: lasciare il sacerdozio. "È stata una decisione straziante. Serve più coraggio a lasciare che a diventare prete. Non potevo più ignorare il silenzio interiore che mi diceva di cercare una vita autentica e con un nuovo significato, anche a costo del mio ministero". In effetti Dio Padre vuole tutti i suoi figli felici, il paradiso inizia qui, in terra. Quella vita per Matteo, oramai, era diventata un inferno prima della morte. “Pietro, ti dirò: ho dimenticato alcuni anni della mia vita, soprattutto gli anni successivi alla mia scelta”. Matteo ci ha messo due anni per far diventare realtà la sua scelta. Tutti gli dicevano che era sbagliato: il suo padre spirituale, il suo vescovo, i suoi amici preti, confratelli di una vita. “A chiusura dell’anno pastorale, nella festa patronale di Sant’Anna, il 28 luglio di otto anni fa, ho comunicato alla mia parrocchia che dalla domenica successiva non sarei stato più il loro parroco. Straziante è l’aggettivo che più stigmatizza quel momento e quel giorno ma ricordo bene anche la sensazione che ho provato quando ho fisicamente tolto la casula e la stola dopo la messa: leggerezza. Respiravo bene, come da ragazzo. Quel peso sul petto era svanito. Quella notte ho dormito tanto come se non dormissi da mesi. Non sapevo quello che mi aspettava.” Matteo mi ha raccontato lo scherno a cui è stato sottoposto dopo la sua dichiarazione. Mi ha detto il senso di “sporco” che si sentiva addosso quando per strada ascoltava il giudizio e gli sguardi dei curiosi: “è lui il parroco di Sant’Anna che si è spogliato”, “Secondo me avrà una donna!”, “Dicono che ha un figlio nascosto con la catechista delle terze”, “Mio cugino mi ha detto che è ricchione, per questo è uscito, ha un mantenuto nel paese vicino”. Era inconcepibile per i parrocchiani che un prete possa smettere di esserlo semplicemente per motivi spirituali e queste sole parole, frutto di un morboso pettegolezzo, “mi facevano sentire sporco, violentato nella mia vita intima e di preghiera, di uomo di fede che non poteva più essere uomo di Dio”. Per questo, dopo un anno, ho scelto di lasciate la mia terra, il mio mare, per un posto dove poter essere me stesso, senza quel rimando al mio passato, che non negavo ma con cui avevo bisogno di fare pace”. Dopo aver lasciato il sacerdozio, Matteo affronta un periodo di profonda riflessione e adattamento alla “nuova vita”. Alla fine era cresciuto nella Chiesa, ci stava dentro fin dalle scuole superiori. "Non è stato facile. Ho dovuto ricostruire la mia identità e trovare un nuovo scopo nella vita. Ma, alla fine, ho scoperto una nuova forma di servizio e di amore per il prossimo". Matteo oggi lavora come docente di sostegno: “La mia esperienza come prete mi ha dato una profonda comprensione dell'animo umano. Utilizzo tutto ciò che ho imparato soprattutto per aiutare i genitori che si trovano emotivamente impreparati a gestire le nuove e complesse disabilità dell’età dell’infanzia”. “Quando torni al paesello – gli chiedo – che effetto ti fa rivedere quelle persone che hai confessato? Cosa ti dicono”. Mi risponde: “A volte non mi riconoscono. Sono cambiato in questi anni: ho perso 50 kg, ho dei tatuaggi, ho perso i capelli. E poi torno davvero poche volte, faccio ancora molta fatica ad affrontare quei luoghi che mi ricordano quella grande storia d’amore. Si, forse sono ancora in quella fase del “lasciamento”: mi sono sentito come se fossi stato lasciato pur amando ancora quella persona. I luoghi, le scene, quelle strade, quella chiesa, mi ricordano quell’amore pieno ma tormentato. Alla fine la Chiesa è stato il primo amore, quello che non si scorda mai e anche tu lo sai!”
La storia di Matteo è una testimonianza potente di coraggio, fede e autenticità. Come ex seminarista, riconosco nelle sue parole quei sentimenti che hanno guidato anche il mio percorso. Per me, il Signore mi ha fatto capire prima e mi ha dato il coraggio per non oltrepassare il limite dell’ordinazione. L’esperienza di vita di Matteo, con tutte le sue difficoltà, cadute, salite e rinascite, è un esempio vivido di grande fede e di come l'autenticità possa coesistere in modo potente al credere. Io ringrazio Matteo per aver aperto a me il suo cuore aver dato al meratese la possibilità di conoscere la sua storia.
Grazie Matteo!
Io auguro pace al tuo cuore, e alla tua anima auguro di comprendere che Dio non ha nulla da perdonarti. Ti vedo come quel bambino che ha rotto un piatto, tremante per la paura della reazione della madre. Ma Dio è quella madre che, nel sentire il rumore, corre non per il piatto, ma per accertarsi che tu non ti sia ferito con le schegge di ceramica, ignorando completamente il piatto rotto.
Alla fine, quella madre ti abbraccia, con le lacrime agli occhi non per il piatto, ma per la paura e il dolore che ha visto nei tuoi. Ti auguro, di nuovo, quell'abbraccio materno di Dio Padre e Madre di tutti.
Dopo tutti questi anni di lotte interiori, dodici per la precisione, Don Matteo prese nel suo cuore la decisione più difficile della sua vita: lasciare il sacerdozio. "È stata una decisione straziante. Serve più coraggio a lasciare che a diventare prete. Non potevo più ignorare il silenzio interiore che mi diceva di cercare una vita autentica e con un nuovo significato, anche a costo del mio ministero". In effetti Dio Padre vuole tutti i suoi figli felici, il paradiso inizia qui, in terra. Quella vita per Matteo, oramai, era diventata un inferno prima della morte. “Pietro, ti dirò: ho dimenticato alcuni anni della mia vita, soprattutto gli anni successivi alla mia scelta”. Matteo ci ha messo due anni per far diventare realtà la sua scelta. Tutti gli dicevano che era sbagliato: il suo padre spirituale, il suo vescovo, i suoi amici preti, confratelli di una vita. “A chiusura dell’anno pastorale, nella festa patronale di Sant’Anna, il 28 luglio di otto anni fa, ho comunicato alla mia parrocchia che dalla domenica successiva non sarei stato più il loro parroco. Straziante è l’aggettivo che più stigmatizza quel momento e quel giorno ma ricordo bene anche la sensazione che ho provato quando ho fisicamente tolto la casula e la stola dopo la messa: leggerezza. Respiravo bene, come da ragazzo. Quel peso sul petto era svanito. Quella notte ho dormito tanto come se non dormissi da mesi. Non sapevo quello che mi aspettava.” Matteo mi ha raccontato lo scherno a cui è stato sottoposto dopo la sua dichiarazione. Mi ha detto il senso di “sporco” che si sentiva addosso quando per strada ascoltava il giudizio e gli sguardi dei curiosi: “è lui il parroco di Sant’Anna che si è spogliato”, “Secondo me avrà una donna!”, “Dicono che ha un figlio nascosto con la catechista delle terze”, “Mio cugino mi ha detto che è ricchione, per questo è uscito, ha un mantenuto nel paese vicino”. Era inconcepibile per i parrocchiani che un prete possa smettere di esserlo semplicemente per motivi spirituali e queste sole parole, frutto di un morboso pettegolezzo, “mi facevano sentire sporco, violentato nella mia vita intima e di preghiera, di uomo di fede che non poteva più essere uomo di Dio”. Per questo, dopo un anno, ho scelto di lasciate la mia terra, il mio mare, per un posto dove poter essere me stesso, senza quel rimando al mio passato, che non negavo ma con cui avevo bisogno di fare pace”. Dopo aver lasciato il sacerdozio, Matteo affronta un periodo di profonda riflessione e adattamento alla “nuova vita”. Alla fine era cresciuto nella Chiesa, ci stava dentro fin dalle scuole superiori. "Non è stato facile. Ho dovuto ricostruire la mia identità e trovare un nuovo scopo nella vita. Ma, alla fine, ho scoperto una nuova forma di servizio e di amore per il prossimo". Matteo oggi lavora come docente di sostegno: “La mia esperienza come prete mi ha dato una profonda comprensione dell'animo umano. Utilizzo tutto ciò che ho imparato soprattutto per aiutare i genitori che si trovano emotivamente impreparati a gestire le nuove e complesse disabilità dell’età dell’infanzia”. “Quando torni al paesello – gli chiedo – che effetto ti fa rivedere quelle persone che hai confessato? Cosa ti dicono”. Mi risponde: “A volte non mi riconoscono. Sono cambiato in questi anni: ho perso 50 kg, ho dei tatuaggi, ho perso i capelli. E poi torno davvero poche volte, faccio ancora molta fatica ad affrontare quei luoghi che mi ricordano quella grande storia d’amore. Si, forse sono ancora in quella fase del “lasciamento”: mi sono sentito come se fossi stato lasciato pur amando ancora quella persona. I luoghi, le scene, quelle strade, quella chiesa, mi ricordano quell’amore pieno ma tormentato. Alla fine la Chiesa è stato il primo amore, quello che non si scorda mai e anche tu lo sai!”
La storia di Matteo è una testimonianza potente di coraggio, fede e autenticità. Come ex seminarista, riconosco nelle sue parole quei sentimenti che hanno guidato anche il mio percorso. Per me, il Signore mi ha fatto capire prima e mi ha dato il coraggio per non oltrepassare il limite dell’ordinazione. L’esperienza di vita di Matteo, con tutte le sue difficoltà, cadute, salite e rinascite, è un esempio vivido di grande fede e di come l'autenticità possa coesistere in modo potente al credere. Io ringrazio Matteo per aver aperto a me il suo cuore aver dato al meratese la possibilità di conoscere la sua storia.
Grazie Matteo!
Io auguro pace al tuo cuore, e alla tua anima auguro di comprendere che Dio non ha nulla da perdonarti. Ti vedo come quel bambino che ha rotto un piatto, tremante per la paura della reazione della madre. Ma Dio è quella madre che, nel sentire il rumore, corre non per il piatto, ma per accertarsi che tu non ti sia ferito con le schegge di ceramica, ignorando completamente il piatto rotto.
Alla fine, quella madre ti abbraccia, con le lacrime agli occhi non per il piatto, ma per la paura e il dolore che ha visto nei tuoi. Ti auguro, di nuovo, quell'abbraccio materno di Dio Padre e Madre di tutti.
Pietro Santoro, nato a Caserta il 29 dicembre 1990. Primo di tre figli, ho vissuto la mia infanzia e adolescenza alle pendici del Monte Tifata, tra San Tammaro, Santa Maria Capua Vetere e Capua, dove ho frequentato il Liceo Scientifico “L. Garofano”. Nel 2009 mi sono iscritto presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, la sez. San Luigi, conseguendo nel 2014 il Baccellerato in Sacra Teologia, con la valutazione di magna cum laude. Negli stessi anni ho frequentato il Pontificio Seminario Campano Interregionale di Posillipo, il Seminario Maggiore per le arcidiocesi e diocesi della Campania e del meridione d'Italia che ne hanno affidato la direzione alla Compagnia di Gesù (Gesuiti). È il luogo che la Chiesa Cattolica istituisce per la formazione del futuro clero diocesano. Ho frequentato la Pontifica Università della Santa Croce in Roma per la Licenza in Diritto Canonico. Vivo in Lombardia dal 4 novembre 2015 e a Osnago dal 2019. Ho insegnato Religione Cattolica dal 2015 al 2023 presso alcune scuole del meratese ma soprattutto presso la Scuola Primaria “G. Rodari” di Cernusco Lombardone, di cui sono stato Responsabile di Plesso dal 2018 al 2023.
Rubrica a cura di Pietro Santoro