LIBRI CHE RIMARRANNO/107: "Eravamo immortali" di Marco Cassardo
“Non aveva alternative, era uno di quegli uomini che se non stanno sempre su di giri si spengono. Non teneva il minimo, doveva di nuovo accelerare.”La dichiarazione di poetica compare come un lapsus a pagina 265 delle 444 di cui si compone “Eravamo immortali”, l’ultimo romanzo di Marco Cassardo (Mondadori 2023, euro 20,00), e si veste del lessico motoristico.
Del resto, siamo a Torino, tra i capannoni della FIAT di Valletta, e Stefano, uno dei due protagonisti maschili di questo romanzo, è appena stato licenziato in palese odore di attivismo comunista. Ripartirà da un’idea non sua ma della moglie Fernanda, splendida figura del libro, (“Sono bilingua.” – si presenta a lui a pag. 97 – “Parlo due lingue, il veneto in casa e il torinese fuori”. E quella sua cadenza a volte sgrammaticata, quel suo malessere, la paura di non essere all’altezza, è la voce più bella del romanzo), e aprirà una ditta di fanali e ricambi “aftermarket” – diremmo oggi –, la “ARIC” di cui magari qualcuno dei lettori avrà montato i fanali o i catarifrangenti sulla 550 Abarth dei bei tempi che furono.
Quei “bei tempi” del boom economico italiano “Eravamo immortali” li racconta da punti di vista e con toni originali: dal 23 aprile 1939 al 10 luglio 2000 il romanzo si mette accanto ai nostri soldati in Russia, ai partigiani e ai fascisti imboscati in val Chisone, agli operai di Mirafiori, agli universitari di Torino, e lo fa con un impasto “bilinguo”, di italiano e dialetto, efficace.
Lo stesso protagonista si chiama “Stefano” o “Steu” a seconda di ciò che fa, pensa, dice. È ambizioso e volitivo, utopistico ma persino violento, idealista e immorale (difenderà i diritti degli operai di Mirafiori ma a suo tempo faceva il contrabbandiere). È un “comunista”.
Nando ha condiviso con lui lo strazio della campagna di Russia, le amicizie, i corteggiamenti e l’ambiente di lavoro. Ma Nando era fascista e lo è rimasto anche dopo il ’43.
Non è solo la politica a divederli: anche fisicamente sono agli antipodi, snello e nervoso l’uno, irsuto e cupo l’altro. Anche le donne di cui si innamorano e con cui divideranno gran parte della loro vita sono diverse (fragile eppure forte Fernanda, giovanissima, colta e sconsiderata Piera). Il destino dei loro figli si incrocia, a un certo punto, in modo drammatico ma – a dirla tutta – prevedibile.
Li accomuna la passione per la bicicletta: è sulla salita di Superga che si incontrano e si scontrano per la prima volta, sconfitti entrambi dal “Lampione azzurro”, Fausto Coppi. Li divide il talento: campione uno, gregario l’altro.
La regola di Stefano (“Non teneva il minimo, doveva di nuovo accelerare”) è il principio permette alla bicicletta di stare in piedi, l’effetto giroscopico che si innesca al di sopra di una certa minima velocità. In bici per stare in equilibrio non puoi andare troppo lentamente.
Tutto il romanzo vive di questo principio: veloce, scattante, ruvido nei primi capitoli, quando i protagonisti sono giovani e affamati, più meditativo e sforzato negli ultimi, quando la vecchiaia, la malattia, i pensieri appesantiscano la testa e le gambe di Stefano e Nando, che pure non rinunciano a scalare ancora Superga.
Ma questo stesso principio diventa il difetto del libro: un perenne movimento, un continuo ondeggiare da una parte e dall’altra come un ciclista che stia perdendo l’equilibrio affrontando una salita troppo ripida. Troppe cose ci sono in questo romanzo, sulle quali l’autore tira via troppo velocemente. Troppi campioni ai quali Cassardo si mette in scia: la campagna di Russia di Giulio Bedeschi, le colline piemontesi di Cesare Pavese, i racconti di ciclismo di Gianni Mura, l’ambizione di un romanzo-fiume sull’Italia recente di Giorgio Fontana (il suo “Prima di noi”, Sellerio 2020, aveva 882 pagine e abbracciava cento anni, dal 1917 al 2012, ma con ben altra e ben più preziosa coesione interna!), sé stesso (si era già occupato del Grande Torino nel suo “Belli e dannati” del 1998).
Dopo la gavetta dei primi romanzi minori, Cassardo, scrittore e mental coach, “allenatore della mente di calciatori di ogni età” (e infatti vuoi che il figlio di Steu non sia una promessa – mancata – del calcio?), debutta con un grande marchio dell’editoria e con grande ambizione. Ma lega tappe di pianura e tappe di montagna, in un Giro d’Italia al termine del quale non vince nessuno. Anche il coup de théâtre che a pag. 432 risolve il fatto di pag. 140 è un colpo di pedale a vuoto, cercato all’ultimo chilometro, quando il gruppo dei migliori si è già involato verso il traguardo.
Poi non è detto che ciò che finora ho scritto sia per forza di cose un difetto: capirei chi sostenesse che si tratti di “sprezzatura”, di un tono volutamente asciutto, prosaico, piemontesemente cortese, che smussa gli acuti in una normalità non meno drammatica, come lo è la vita reale fatta di piccole battaglie ma non meno grande eroismo.
Del resto, siamo a Torino, tra i capannoni della FIAT di Valletta, e Stefano, uno dei due protagonisti maschili di questo romanzo, è appena stato licenziato in palese odore di attivismo comunista. Ripartirà da un’idea non sua ma della moglie Fernanda, splendida figura del libro, (“Sono bilingua.” – si presenta a lui a pag. 97 – “Parlo due lingue, il veneto in casa e il torinese fuori”. E quella sua cadenza a volte sgrammaticata, quel suo malessere, la paura di non essere all’altezza, è la voce più bella del romanzo), e aprirà una ditta di fanali e ricambi “aftermarket” – diremmo oggi –, la “ARIC” di cui magari qualcuno dei lettori avrà montato i fanali o i catarifrangenti sulla 550 Abarth dei bei tempi che furono.
Quei “bei tempi” del boom economico italiano “Eravamo immortali” li racconta da punti di vista e con toni originali: dal 23 aprile 1939 al 10 luglio 2000 il romanzo si mette accanto ai nostri soldati in Russia, ai partigiani e ai fascisti imboscati in val Chisone, agli operai di Mirafiori, agli universitari di Torino, e lo fa con un impasto “bilinguo”, di italiano e dialetto, efficace.
Lo stesso protagonista si chiama “Stefano” o “Steu” a seconda di ciò che fa, pensa, dice. È ambizioso e volitivo, utopistico ma persino violento, idealista e immorale (difenderà i diritti degli operai di Mirafiori ma a suo tempo faceva il contrabbandiere). È un “comunista”.
Nando ha condiviso con lui lo strazio della campagna di Russia, le amicizie, i corteggiamenti e l’ambiente di lavoro. Ma Nando era fascista e lo è rimasto anche dopo il ’43.
Non è solo la politica a divederli: anche fisicamente sono agli antipodi, snello e nervoso l’uno, irsuto e cupo l’altro. Anche le donne di cui si innamorano e con cui divideranno gran parte della loro vita sono diverse (fragile eppure forte Fernanda, giovanissima, colta e sconsiderata Piera). Il destino dei loro figli si incrocia, a un certo punto, in modo drammatico ma – a dirla tutta – prevedibile.
Li accomuna la passione per la bicicletta: è sulla salita di Superga che si incontrano e si scontrano per la prima volta, sconfitti entrambi dal “Lampione azzurro”, Fausto Coppi. Li divide il talento: campione uno, gregario l’altro.
La regola di Stefano (“Non teneva il minimo, doveva di nuovo accelerare”) è il principio permette alla bicicletta di stare in piedi, l’effetto giroscopico che si innesca al di sopra di una certa minima velocità. In bici per stare in equilibrio non puoi andare troppo lentamente.
Tutto il romanzo vive di questo principio: veloce, scattante, ruvido nei primi capitoli, quando i protagonisti sono giovani e affamati, più meditativo e sforzato negli ultimi, quando la vecchiaia, la malattia, i pensieri appesantiscano la testa e le gambe di Stefano e Nando, che pure non rinunciano a scalare ancora Superga.
Ma questo stesso principio diventa il difetto del libro: un perenne movimento, un continuo ondeggiare da una parte e dall’altra come un ciclista che stia perdendo l’equilibrio affrontando una salita troppo ripida. Troppe cose ci sono in questo romanzo, sulle quali l’autore tira via troppo velocemente. Troppi campioni ai quali Cassardo si mette in scia: la campagna di Russia di Giulio Bedeschi, le colline piemontesi di Cesare Pavese, i racconti di ciclismo di Gianni Mura, l’ambizione di un romanzo-fiume sull’Italia recente di Giorgio Fontana (il suo “Prima di noi”, Sellerio 2020, aveva 882 pagine e abbracciava cento anni, dal 1917 al 2012, ma con ben altra e ben più preziosa coesione interna!), sé stesso (si era già occupato del Grande Torino nel suo “Belli e dannati” del 1998).
Dopo la gavetta dei primi romanzi minori, Cassardo, scrittore e mental coach, “allenatore della mente di calciatori di ogni età” (e infatti vuoi che il figlio di Steu non sia una promessa – mancata – del calcio?), debutta con un grande marchio dell’editoria e con grande ambizione. Ma lega tappe di pianura e tappe di montagna, in un Giro d’Italia al termine del quale non vince nessuno. Anche il coup de théâtre che a pag. 432 risolve il fatto di pag. 140 è un colpo di pedale a vuoto, cercato all’ultimo chilometro, quando il gruppo dei migliori si è già involato verso il traguardo.
Poi non è detto che ciò che finora ho scritto sia per forza di cose un difetto: capirei chi sostenesse che si tratti di “sprezzatura”, di un tono volutamente asciutto, prosaico, piemontesemente cortese, che smussa gli acuti in una normalità non meno drammatica, come lo è la vita reale fatta di piccole battaglie ma non meno grande eroismo.
Rubrica a cura del prof. Stefano Motta