Church Pocket/27. Dietro l'Altare: storie di sacerdoti – seconda parte. Testimonianze dal convento, carcere e dall'Irpina
Ogni sacerdote ha una storia unica da raccontare. A volte la chiamata la senti subito, a volte hai il cellulare in modalità silenziosa e te ne accorgi solo dopo aver visto lo schermo. Raccogliere queste testimonianze è stato un privilegio e ringrazio i sacerdoti – e non – che hanno condiviso con me le loro esperienze.
Oggi iniziamo con Fra Christian, Frate Minore e Sacerdote, che ci racconta la sua esperienza di prete non solo della Chiesa Diocesana ma al servizio dei Frati Minori, dei Francescani.“Riuscire a spiegare in cosa consista vivere la mia vocazione di religioso presbitero non è semplice. Spesso la differenza tra un prete cosiddetto "diocesano" e un presbitero frate o comunque appartenente ad un istituto di vita consacrata, non viene immediatamente colta. La domanda che mi sento rivolgere è: “Che differenza c’è fra un prete e un frate?” Non è una domanda inappropriata! Anzi, è una vera e propria domanda “ecclesiologica”, cioè sulla natura della Chiesa e di alcune sue componenti essenziali: il sacerdozio e la vita consacrata. Si tratta di due percorsi vocazionali, per certi aspetti simili: entrambi, infatti, nascono da Gesù, da un Suo invito, ma con accentuazioni poi molte diverse.
Nella mia vita di religioso francescano e presbitero questo si declina quotidianamente nella vita di fraternità a servizio delle sorelle e dei fratelli che il Signore pone sul mio cammino e nel desiderio di imitare il Signore Gesù casto, povero e obbediente al Padre. L’esperienza di san Francesco nasce proprio da questo stesso desiderio di imitazione “carne a carne”, di assimilazione all’Amato, di totale identificazione con Gesù. San Francesco, non a caso, è definito dai suoi contemporanei come “Alter Christus”. Per i Francescani è necessario diventare sacerdote per essere frate. La nostra principale vocazione è alla vita religiosa vissuta nel carisma che lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa attraverso San Francesco di Assisi, chiamato a vivere il Vangelo "sine glossa", senza compromessi, nell' imitazione del "Signore povero e crocifisso e della sua Madre poverella". Infatti non c'è nessuna distinzione tra noi frati, se non – per coloro che sono sacerdoti – dagli obblighi derivati dal ministero ordinato. Per noi frati francescani la chiamata al presbiterato è per così dire una "vocazione nella vocazione". Alcuni di noi sentendo la chiamata al presbiterato e, facendo ulteriormente discernimento, vengono eletti e ordinati anche al presbiterato, diventando sacerdoti. Ma lo stesso ministero ordinato viene vissuto alla luce della vita consacrata e quindi con una connotazione e un modo proprio che è quello tipico della vita religiosa, nel carisma del fondatore. Si resta sempre frati, chiamati a vivere l'ordinarietà, regolare del convento, con i suoi servizi semplici e umili, senza dispense particolari. In più si aggiungono i servizi che derivano dal ministero presbiterale, quali la cura delle anime, le confessioni, le celebrazioni eucaristiche e le predicazioni. Quindi l’essere Sacerdote per me non toglie nulla al mio essere Frate Minore francescano, ma lo completa in quella assimilazione a Cristo, chiamata di ogni cristiano. Ovviamente vivo le fatiche di ogni battezzato che vuol vivere seriamente la sua appartenenza a Cristo, ma questo è per me fonte di gioia, rinnovata nella risposta che quotidianamente cerco di dare al Signore nella splendida vocazione a cui mi ha chiamato nella Chiesa. Essere immagine di Lui, Pastore e Sposo, nel sacerdozio e contemporaneamente essere immagine escatologica della Chiesa Sposa, che adora e attende il suo Signore nella vita religiosa.
Continuiamo con una testimonianza di trincea: Don Salvatore. Nasce in una periferia disagiata di una grande città. L’Incontro con Cristo gli ha praticamente “salvato la vita”. Con la vocazione, Salvatore si è allontanato dalle cattive amicizie e da loschi luoghi. Per questo il suo Vescovo gli ha affidato la pastorale delle carceri, luogo in cui il perdono e la misericordia di Dio solo e devono essere la pima luce cristiana per i cuori di questi uomini che, pur essendosi macchiati di atroci crimini, non possono e non devono essere trattati con vendetta. “La mia giornata è scandita dal suono delle sbarre che si aprono e si chiudono. In un monastero a scandire la giornata è la campana: nella mia pastorale è il suono del freddo ferro attraverso cui passo. Come cappellano, il mio compito è portare un po’ di luce, essere una finestra di speranza in un luogo di oscurità. Lavoro con uomini che hanno commesso crimini terribili. Alcuni di loro sono pentiti, altri sono ancora pieni di rabbia e disperazione. Il mio lavoro è ascoltarli, senza essere giudice. Devo essere il volto del Padre Misericordioso. Devo ricordare che, nonostante i loro errori, rimangono esseri umani, degni di amore e di perdono. E la mia storia personale mi aiuta in questo: pur avendo vissuto una giovinezza all’insegna della malavita e delle donne, Cristo mi ha chiamato tra i suoi servitori, mi fa sentire sempre amato. Ci sono momenti di grande intensità emotiva, quando un detenuto finalmente si apre e confessa il proprio dolore, o quando qualcuno, che non ha mai creduto in Dio, decide di avvicinarsi alla fede. Ma ci sono anche momenti di profonda frustrazione. Non arrivo a tutti i detenuti. Per questo non posso fare altro che ascoltarli quando vogliono sfogarsi con me, pregare per loro, e sperare che un giorno vedano una via d'uscita, non solo fisica. Una delle sfide più grandi è lavorare con chi si è macchiato di crimini di mafia o crimini cruenti contro le mogli o contro innocenti indifesi. Come si può parlare di perdono, di salvezza e di conversione a qualcuno che ha tolto la vita a un altro? Eppure, anche in queste situazioni, cerco di ricordare a me stesso che il messaggio di Cristo è per tutti. Infine, il mio lavoro mi ha insegna che la fede non è una strada facile. Ma è una opportunità necessaria, soprattutto in un luogo come il carcere. Imparo che, nonostante tutto, la misericordia di Dio raggiunge anche i cuori più induriti. E finché ci sarà una piccola fiamma di speranza, io continuerò a fare il mio lavoro, giorno dopo giorno. Grazie a te, Pietro, per avermi dato questa occasione di poter parlare di questo tipo di ministero.”
Dulcis in fundo, dice un vecchio detto. Ebbene sì: come ho aperto la rassegna con un grande compagno di seminario, così la chiudo con un secondo grande confratello nel cammino vocazionale: Don Roberto di Chiara. Conosciuto come baffon, ossia baffone, Roberto ha condiviso con me gli anni della formazione. Nel corridoio della morte, le tre stanze sulla destra erano occupate rispettivamente e progressivamente da Don Roberto, Don Nicola e da me. Quel corridoio tetro e piccolo ha visto le nostri notti in compagnia, pomeriggi di studio e ripetizione per gli esami, a volte di lacrime ma sempre, sempre insieme. “Sono Don Roberto Di Chiara, prete della diocesi di Ariano Irpino – Lacedonia da quasi nove anni, parroco di una piccola parrocchia arroccata tra le colline dell’Irpinia, Zungoli, meno di mille abitanti a confine tra la provincia di Avellino e quella di Foggia. Essere prete qui significa avere a che fare con realtà sempre più povere di materiale umano, paesi che si spopolano, abitati principalmente da persone anziane, pochi matrimoni, pochi battesimi e tanti, tanti funerali. Questo non vuol dire che il mio lavoro pastorale sia fatta di tanto tempo libero! Bisogna portare avanti catechesi, corsi prematrimoniali, andare a trovare ammalati, organizzare feste patronali e tutto quello che una parrocchia comporta. La difficoltà è nel reperimento di operatori pastorali, uomini e donne di buona volontà che danno una mano. Il tutto corredato da chiese sempre più vuote in cui facciamo fatica a reggere anche per il semplice pagamento delle bollette. Ultima – ma non ultima – questione affrontiamo: un forte anticlericalismo sempre più imperante, soprattutto tra le nuove generazioni. Uno dei punti di forza di vivere la pastorale in queste comunità è un approccio “familiare”: conosci tutti per nome; sia nei momenti belli, come un matrimonio o un battesimo, sia momenti di dolore, come un funerale, ti ritrovi tutta la comunità – o quasi tutta – riunita alla partecipazione della gioia o del dolore degli altri. Molta pastorale ordinaria, un piccolo gregge che rende me un piccolo pastore che, nella fragilità delle sue fatiche quotidiane, cerca di portare il suo popolo “su pascoli erbosi e ad acque tranquille”.
Con questa rassegna di testimonianze ho cercato di dare voce alla vita sacerdotale. Ovvio che sono molto poche per poter generalizzare. In un mondo di ombre, la voce del prete rimane un sussurro di speranza, un richiamo alla misericordia che, contro ogni previsione, trova spazio anche nei cuori più induriti. Io li immagino così: che nella quiete della notte che cala, il prete si ritira, sapendo che il suo lavoro non è finito, ma confidando che ogni parola pronunciata con amore può germogliare nella terra più arida.
Grazie a tutti i presbiteri che hanno dato la loro preziosa testimonianza, regalandoci un pezzo della loro vita.
Oggi iniziamo con Fra Christian, Frate Minore e Sacerdote, che ci racconta la sua esperienza di prete non solo della Chiesa Diocesana ma al servizio dei Frati Minori, dei Francescani.“Riuscire a spiegare in cosa consista vivere la mia vocazione di religioso presbitero non è semplice. Spesso la differenza tra un prete cosiddetto "diocesano" e un presbitero frate o comunque appartenente ad un istituto di vita consacrata, non viene immediatamente colta. La domanda che mi sento rivolgere è: “Che differenza c’è fra un prete e un frate?” Non è una domanda inappropriata! Anzi, è una vera e propria domanda “ecclesiologica”, cioè sulla natura della Chiesa e di alcune sue componenti essenziali: il sacerdozio e la vita consacrata. Si tratta di due percorsi vocazionali, per certi aspetti simili: entrambi, infatti, nascono da Gesù, da un Suo invito, ma con accentuazioni poi molte diverse.
Nella mia vita di religioso francescano e presbitero questo si declina quotidianamente nella vita di fraternità a servizio delle sorelle e dei fratelli che il Signore pone sul mio cammino e nel desiderio di imitare il Signore Gesù casto, povero e obbediente al Padre. L’esperienza di san Francesco nasce proprio da questo stesso desiderio di imitazione “carne a carne”, di assimilazione all’Amato, di totale identificazione con Gesù. San Francesco, non a caso, è definito dai suoi contemporanei come “Alter Christus”. Per i Francescani è necessario diventare sacerdote per essere frate. La nostra principale vocazione è alla vita religiosa vissuta nel carisma che lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa attraverso San Francesco di Assisi, chiamato a vivere il Vangelo "sine glossa", senza compromessi, nell' imitazione del "Signore povero e crocifisso e della sua Madre poverella". Infatti non c'è nessuna distinzione tra noi frati, se non – per coloro che sono sacerdoti – dagli obblighi derivati dal ministero ordinato. Per noi frati francescani la chiamata al presbiterato è per così dire una "vocazione nella vocazione". Alcuni di noi sentendo la chiamata al presbiterato e, facendo ulteriormente discernimento, vengono eletti e ordinati anche al presbiterato, diventando sacerdoti. Ma lo stesso ministero ordinato viene vissuto alla luce della vita consacrata e quindi con una connotazione e un modo proprio che è quello tipico della vita religiosa, nel carisma del fondatore. Si resta sempre frati, chiamati a vivere l'ordinarietà, regolare del convento, con i suoi servizi semplici e umili, senza dispense particolari. In più si aggiungono i servizi che derivano dal ministero presbiterale, quali la cura delle anime, le confessioni, le celebrazioni eucaristiche e le predicazioni. Quindi l’essere Sacerdote per me non toglie nulla al mio essere Frate Minore francescano, ma lo completa in quella assimilazione a Cristo, chiamata di ogni cristiano. Ovviamente vivo le fatiche di ogni battezzato che vuol vivere seriamente la sua appartenenza a Cristo, ma questo è per me fonte di gioia, rinnovata nella risposta che quotidianamente cerco di dare al Signore nella splendida vocazione a cui mi ha chiamato nella Chiesa. Essere immagine di Lui, Pastore e Sposo, nel sacerdozio e contemporaneamente essere immagine escatologica della Chiesa Sposa, che adora e attende il suo Signore nella vita religiosa.
Continuiamo con una testimonianza di trincea: Don Salvatore. Nasce in una periferia disagiata di una grande città. L’Incontro con Cristo gli ha praticamente “salvato la vita”. Con la vocazione, Salvatore si è allontanato dalle cattive amicizie e da loschi luoghi. Per questo il suo Vescovo gli ha affidato la pastorale delle carceri, luogo in cui il perdono e la misericordia di Dio solo e devono essere la pima luce cristiana per i cuori di questi uomini che, pur essendosi macchiati di atroci crimini, non possono e non devono essere trattati con vendetta. “La mia giornata è scandita dal suono delle sbarre che si aprono e si chiudono. In un monastero a scandire la giornata è la campana: nella mia pastorale è il suono del freddo ferro attraverso cui passo. Come cappellano, il mio compito è portare un po’ di luce, essere una finestra di speranza in un luogo di oscurità. Lavoro con uomini che hanno commesso crimini terribili. Alcuni di loro sono pentiti, altri sono ancora pieni di rabbia e disperazione. Il mio lavoro è ascoltarli, senza essere giudice. Devo essere il volto del Padre Misericordioso. Devo ricordare che, nonostante i loro errori, rimangono esseri umani, degni di amore e di perdono. E la mia storia personale mi aiuta in questo: pur avendo vissuto una giovinezza all’insegna della malavita e delle donne, Cristo mi ha chiamato tra i suoi servitori, mi fa sentire sempre amato. Ci sono momenti di grande intensità emotiva, quando un detenuto finalmente si apre e confessa il proprio dolore, o quando qualcuno, che non ha mai creduto in Dio, decide di avvicinarsi alla fede. Ma ci sono anche momenti di profonda frustrazione. Non arrivo a tutti i detenuti. Per questo non posso fare altro che ascoltarli quando vogliono sfogarsi con me, pregare per loro, e sperare che un giorno vedano una via d'uscita, non solo fisica. Una delle sfide più grandi è lavorare con chi si è macchiato di crimini di mafia o crimini cruenti contro le mogli o contro innocenti indifesi. Come si può parlare di perdono, di salvezza e di conversione a qualcuno che ha tolto la vita a un altro? Eppure, anche in queste situazioni, cerco di ricordare a me stesso che il messaggio di Cristo è per tutti. Infine, il mio lavoro mi ha insegna che la fede non è una strada facile. Ma è una opportunità necessaria, soprattutto in un luogo come il carcere. Imparo che, nonostante tutto, la misericordia di Dio raggiunge anche i cuori più induriti. E finché ci sarà una piccola fiamma di speranza, io continuerò a fare il mio lavoro, giorno dopo giorno. Grazie a te, Pietro, per avermi dato questa occasione di poter parlare di questo tipo di ministero.”
Dulcis in fundo, dice un vecchio detto. Ebbene sì: come ho aperto la rassegna con un grande compagno di seminario, così la chiudo con un secondo grande confratello nel cammino vocazionale: Don Roberto di Chiara. Conosciuto come baffon, ossia baffone, Roberto ha condiviso con me gli anni della formazione. Nel corridoio della morte, le tre stanze sulla destra erano occupate rispettivamente e progressivamente da Don Roberto, Don Nicola e da me. Quel corridoio tetro e piccolo ha visto le nostri notti in compagnia, pomeriggi di studio e ripetizione per gli esami, a volte di lacrime ma sempre, sempre insieme. “Sono Don Roberto Di Chiara, prete della diocesi di Ariano Irpino – Lacedonia da quasi nove anni, parroco di una piccola parrocchia arroccata tra le colline dell’Irpinia, Zungoli, meno di mille abitanti a confine tra la provincia di Avellino e quella di Foggia. Essere prete qui significa avere a che fare con realtà sempre più povere di materiale umano, paesi che si spopolano, abitati principalmente da persone anziane, pochi matrimoni, pochi battesimi e tanti, tanti funerali. Questo non vuol dire che il mio lavoro pastorale sia fatta di tanto tempo libero! Bisogna portare avanti catechesi, corsi prematrimoniali, andare a trovare ammalati, organizzare feste patronali e tutto quello che una parrocchia comporta. La difficoltà è nel reperimento di operatori pastorali, uomini e donne di buona volontà che danno una mano. Il tutto corredato da chiese sempre più vuote in cui facciamo fatica a reggere anche per il semplice pagamento delle bollette. Ultima – ma non ultima – questione affrontiamo: un forte anticlericalismo sempre più imperante, soprattutto tra le nuove generazioni. Uno dei punti di forza di vivere la pastorale in queste comunità è un approccio “familiare”: conosci tutti per nome; sia nei momenti belli, come un matrimonio o un battesimo, sia momenti di dolore, come un funerale, ti ritrovi tutta la comunità – o quasi tutta – riunita alla partecipazione della gioia o del dolore degli altri. Molta pastorale ordinaria, un piccolo gregge che rende me un piccolo pastore che, nella fragilità delle sue fatiche quotidiane, cerca di portare il suo popolo “su pascoli erbosi e ad acque tranquille”.
Con questa rassegna di testimonianze ho cercato di dare voce alla vita sacerdotale. Ovvio che sono molto poche per poter generalizzare. In un mondo di ombre, la voce del prete rimane un sussurro di speranza, un richiamo alla misericordia che, contro ogni previsione, trova spazio anche nei cuori più induriti. Io li immagino così: che nella quiete della notte che cala, il prete si ritira, sapendo che il suo lavoro non è finito, ma confidando che ogni parola pronunciata con amore può germogliare nella terra più arida.
Grazie a tutti i presbiteri che hanno dato la loro preziosa testimonianza, regalandoci un pezzo della loro vita.
Rubrica a cura di Pietro Santoro