LIBRI CHE RIMARRANNO/106: i tanti romanzi di "Selvaggio Ovest" di Daniele Pasquini

«Non trovi la strada? Le strade si fanno a furia di camminare. Esistono solo perché qualcuno le ha create passo su passo. Se la strada su cui cammini finisce, allora devi inventarla.»

Ci sono tanti punti di vista diversi dai quali è possibile osservare “Selvaggio Ovest”, il bel romanzo che Daniele Pasquini ha pubblicato con NN Editore.

È un romanzo storico quando racconta quello scorcio d’Italia appena postunitaria – la Maremma toscana – in quello scorcio di fine ’800, secondo lo sguardo – di sbieco, scorciato, terreno – dei butteri, mentre il Wild West Show di Buffalo Bill e Alce Nero spopola in Europa, Firenze compresa, e qualcuno si chiede cosa voglia dire “cauboi”. “Vuol dire butteri in americano”, si risponde. E in effetti il confronto tra i due mondi lontanissimi eppure così simili prende i connotati di una sfida tra cavalli e domatori (vinta, ça va sans dire, dai butteri!).
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È un romanzo d’avventura quando racconta le peripezie del brigante Occhionero e dei suoi scagnozzi, Fiuto e Rogo (nomi da bravi manzoniani, ma con l’aggiunta di un irredimibile squallore interiore), inseguiti dall’inetto e vanesio carabiniere Orsolini (ascoltare le sue parole riporta alla mente i soliloqui donabbondieschi a dorso di mula): un po’ Sergio Leone, un po’ Sam Peckinpah. Due filoni avventurosi lo percorrono: la fuga e la vendetta di Occhionero da una parte, e un misterioso furto di cavalli dall’altra, che è troppo facile attribuire a questi briganti, e che infatti…

È un Bildungsroman, un romanzo di formazione, se si accetta un punto di vista inizialmente più basso, se lo si legge dall’altezza di Donato, il giovane ragazzo figlio adottivo della famiglia di Giuseppe, che cavalca bestie più piccole, che impara il mestiere, che cresce nell’ombra del padre, “il Penna”, finanche nel soprannome, “Pennino”, e che diventa uomo. Le pagine che raccontano i loro silenzi, il desiderio di approvazione dell’adolescente, la reticenza timida del padre, il modo asciutto e sincero di dirsi il bene, sono tra le più belle, e andrebbero fatte leggere a tutti i padri e i figli di oggi, che non andranno a cavallo, che non guideranno mandrie, che non dormiranno sotto le stelle, ma che avrebbero tanto da imparare.

È un romanzo moderno, sebbene racconti apparentemente una storia di nicchi. Sarebbe troppo facile incasellarlo nell’etichetta di “western nostrano” (abbiamo già dato, a sproposito, con la pigra categoria di “western padano” affibbiata alla trilogia della frontiera di Matteo Righetto o a qualche romanzo di Baldini), o prenderlo come un racconto esotico. Come già negli “spaghetti western”, c’è un che di epico e ancestrale in alcune scene, rallentate, dilatate, scavate a fondo.

Lo si legge con trasporto, al passo lento della mandria e al galoppo frenetico degli stalloni. Quando i diversi fili narrativi (quello dei butteri, quello della compagnia di Buffalo Bill, della banda di Occhionero, dello sciocco Orsolini, della tremendamente coraggiosa Gilda) si incrociano, alla fine, le pagine sgroppano furiose, e si vorrebbe dare di sprone per vedere dove vanno a finire, e si vorrebbe tirare le briglie, per far durare il libro ancora di più.
Rubrica a cura del prof. Stefano Motta
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