Church Pocket/25. Dietro l'Altare: storie di sacerdoti – prima parte. Testimonianze di consacrati sulla Vita e la Fede

Da ex seminarista, ho vissuto da vicino le gioie, le sfide e i sacrifici del cammino vocazionale, prove e sofferenze che ancora oggi costellano la mia esperienza e la mia coscienza. Oggi, laico credente, ho raccolto e propongo alcune testimonianze di alcuni sacerdoti che servono la Chiesa Cattolica a diverso titolo e che, con generosità e in spirito di amicizia, hanno condiviso le loro esperienze. Credo che queste storie offrano uno spaccato autentico sulla vita sacerdotale, svelando il cuore palpitante degli uomini della trincea di Cristo, che vivono le gioie e le speranze dei e con il Popolo di Dio.

La prima voce che ascoltiamo è quella di Don Nicola De Sena. A lui mi unisce una profonda amicizia, nata nel 2009 nei corridoi del Pontificio Seminario Campano Interregionale di Napoli. Pur non essendo coetanei, siamo compagni di comunità. Abbiamo condiviso da vicino, porta a porta, nel senso letterale dell’espressione, il percorso vocazionale. Siamo stati per tre anni “vicini di camera” ed essendo più grande di me, spesso ha raccolto le mie preoccupazioni e le mie difficoltà. 
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“Sono prete da 8 anni. Nel 2016, Giubileo della Misericordia, il Signore ne ha usata tantissima verso di me, volendomi come suo ministro. Sono stato tre anni vice-parroco e da cinque anni ormai sono parroco a Somma Vesuviana, con l’impegno di essere pastore di due comunità molto grandi del centro, che sono state unite dal Vescovo. Quando mi è stato chiesto di scrivere questa mia testimonianza, stavo correndo il rischio di elencare tutti i problemi soliti delle parrocchie, acuiti notevolmente con la pandemia. Le parrocchie sono luoghi complessi, dove le dinamiche umane – a volte contro/testimonianza di fede – si mescolano con le vicende divine. Il quadro generale sembrerebbe portare in un’unica direzione: lo sfascio totale. Cogliendo le sfide di questo tempo, mi permetto di indicare tre dinamiche fondamentali che credo possano essere utili per una conversione; ovviamente le considerazioni nascono dalla mia vita da parroco che talvolta è asfissiante, ma resta per me la scelta più bella che potessi fare.

Luogo dalle solide fondamenta.
In una società definita “liquida”, dove tutto sembra aver perso densità e importanza e nella quale le figure di riferimento sono del tutto ignorate, la parrocchia resta il luogo in cui troviamo solide basi, in cui si poggiano le relazioni autentiche tra le persone e dove ancora esiste la possibilità di trovare punti di riferimento certi, che non cambiano direzione in base al vento, ma nel tempo consentono di possedere uno straordinario tesoro di valori.

Luogo dell’ascolto e della partecipazione.
Oggi vomitiamo sempre parole e non siamo capaci più di ascoltare, perché distratti, soprattutto dai cellulari. Nemmeno siamo più capaci del confronto pacato e della partecipazione. È il tempo della delega: tutto noi demandiamo ad altri, scaricando le nostre personali responsabilità. Invece la parrocchia, in buona parte dei casi, è il luogo in cui trovi almeno il parroco pronto ad ascoltarti, a consigliarti, in maniera pulita e disinteressata. La parrocchia è anche il luogo in cui ti senti protagonista perché sei parte fondamentale di un corpo, per cui il confronto è il nostro pane quotidiano e gli eventuali “conflitti” sono momenti di crescita.
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Un cortile allargato.
In un tempo in cui l’individualismo è giunto a livelli estremi, in un tempo in cui ognuno si chiude in sé stesso e cura il proprio orticello, la parrocchia può essere il cortile ideale nel quale condividere la vita. Quelli della mia generazione sono cresciuti nei cortili delle nostre case: eravamo figli di tutti e condividevamo gli stessi valori, eravamo educati dalla “comunità del cortile” e i nostri genitori avevano un compito più facile perché le famiglie condividevano anche momenti belli e significativi insieme a tutti. Così può essere la parrocchia: un cortile dove le famiglie possono tornare a vivere e a condividere la bellezza della vita, i momenti più significativi, così da realizzare con concretezza la “comunità educante” che tutti sogniamo.

Chiedo scusa per la lungaggine, ma sono considerazioni di un parroco della provincia di Napoli che ogni giorno condivide la vita con la sua gente e sente la necessità di aiutare il popolo che il Signore mi ha affidato perché possa crescere nella fede, ma anche nella comunione fraterna”.


Don Vincenzo, invece, è un sacerdote studioso, la cui vocazione – ci racconta il prelato – è legata al fondare la vita di fede sulla teologia. “Vivo la mia vita sacerdotale in un piccolo paesino della Campania. Come tutti i sacerdoti del nostro tempo, cerco di accogliere la sfida di un mondo che, cambiando, si pone sempre più domande sul senso della fede e della vita. Un mondo forse dove, essendo ogni cosa a portata di mano, questo senso della fede diventa sempre più sbiadito e apparentemente inutile. Probabilmente non sarò in grado di dare risposte a tutto ciò, ma cerco di fare la mia parte, lasciandomi aiutare dalla mia passione per la lettura e per lo studio della letteratura classica. Una passione nata in giovane età e che oggi diventa per me una possibilità concreta per leggere l’animo umano. L’animo degli antichi era certamente un animo senza pregiudizi e forse proprio questo diventa per me un monito per accostarmi agli altri con alcuna presunzione ma con la libertà di chi porta un messaggio, quello di Gesù, che si è detto via, verità e vita” 

L’ultimo presbitero di questa rassegna ha scelto di restare anonimo. Forse non sarò il suo caso ma anche la Chiesa, come una comune comunità di questo mondo, vive periodi di depressione, dove la libertà consta tanto. Il caso di Don Camillo – poi capirete perché gli attribuisco questo pseudonimo – è una storia con tratti comici ma ci dice come si vive la fede in un mondo sempre più secolarizzato. 

“Pronto, volevo segnalare che sulla statale sta passando una persona vestita da prete, non vorrei che avesse strane intenzioni!”. Così, un solerte cittadino avvisò gli organi preposti alla sicurezza pubblica, ormai più di quindici anni fa quando mi videro, da poco ordinato, attraversare la strada principale del paese. Mentre andavo a far visita agli ammalati. Arrivata da poco la nomina in diversi mi chiesero: “Ma che hai fatto di male per finire laggiù?!” Ero un perfetto sconosciuto e faceva strano vedere un prete con la tonaca passare per strada dopo anni che non se ne vedeva più uno. Così iniziò il mio servizio pastorale in una parrocchia del centro Italia, in un territorio storicamente rosso, dove fino agli anni settanta i pochi metri che separavano la chiesa da comune sembravano chilometri, dove gli uomini stavano in piazza durante i funerali e andare alla messa era motivo di scherno da parte dei vicini. Le incomprensioni e le paure, da entrambe le parti, avevano creato un clima di diffidenza, alimentato per lo più da luoghi comuni e da rapporti non sempre facili da gestire.
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Se il sindaco si rifiutava di partecipare alla processione del patrono il parroco, per tutta risposta, metteva un megafono sul campanile affinché anche gli avventori della vicina casa del popolo sentissero la predica della messa grande della domenica. Se poi il prete novello proviene dal nord Italia, con una storia e un sentimento religioso ancora molto forte e legato alle istituzioni civili e sociali, tutto diviene ancora più strano e difficile. Essere sacerdote in queste zone ti fa partire svantaggiato e l’essere spesso indicato con il termine “il prete” fa sentire un non so che di dispregiativo. Tutto questo poteva sembrare all’inizio un ostacolo. Dopo anni dico che è una opportunità. In un mondo che, purtroppo o per fortuna, sta cambiando, certi ruoli non vanno dati per scontati e certi atteggiamenti sono stati superati. Com’è essere prete in una realtà lontana, almeno apparentemente, da una certa sensibilità religiosa? Direi bello. Bello perché quando si condivide con sincerità ciò che uno vive, si riesce ad entrare in ogni casa e in ogni cuore.: la visita a un ammalato che non ha mai messo piede in chiesa ma che ti tiene come fossi un figlio, la gioia per una coppia che dopo anni arriva a scegliere il matrimonio o chiede il battesimo per il bambino che ormai arriva camminando al fonte da battesimale, scoprire che chi si ha davanti ha una sua storia e una sua sensibilità che ti fa capire che “i lontani” da Dio sono tali perché “i vicini” ne hanno preso le distanze. La difficoltà più grande? Vincere certi luoghi comuni che persistono da ambo le parti e saper scorgere nell’altro il buono e il bello che porta con sé. Lo diceva anche Giovanni XXII: “guardare a ciò che unisce”.

Le testimonianze di Don Nicola, Don Vincenzo e Don Camillo offrono una prospettiva vera sulla vita sacerdotale e parrocchiale. Riconosco nelle loro parole la stessa passione e dedizione che mi hanno guidato durante il mio percorso. Queste storie ci ricordano che la vocazione sacerdotale è una vita preziosa, fatta di sacrifici e di immense gioie. La vita di un sacerdote, pur nelle sue sfide, è una testimonianza vivente dell'amore di Dio. 
Nel prossimo appuntamento leggeremo altre testimonianze, a volte non sempre positive ma che fanno parte lo stesso della vita della Chiesa. Lo stesso Cristo fu si osannato con un grande ingresso trionfale in Gerusalemme ma dopo pochi giorni, la stessa gente che lo accolse con feste, preferì un brigante e lo consegnò alla morte!
Rubrica a cura di Pietro Santoro
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