LIBRI CHE RIMARRANNO/105: "La Santuzza è una rosa" di Giuseppina Torregrossa
“L’amore è uno strano sentimento. Fare la madre poi è così complicato. Più facile fare la santa.”
Secondo sua madre Viciuzza è una “babbasuna”. La donna si prostituisce nella Palermo del Seicento, e anche Viciuzza rischierà di rimanere prigioniera nel sudiciume morale e materiale dei vicoli.
La salva l’amicizia con Rosalia, una ragazzina povera come lei, che la aiuta (le appare?) nei momenti più drammatici e che il popolino racconta essere una santa. La salva il suo candore, all’apparenza così sciocco e ostinato, che nemmeno le privazioni e le violenze più sconce riescono a deturpare.
E la sfida a diventare donna, senza più diminutivi nel nome, quella figlia che ha partorito, frutto di una violenza sconosciuta.Mentre Viciuzza cerca salvezza per sé e per la creatura, Palermo cresce, si ingrossa di chiese e di rivalità tra ordini religiosi, e si ammala di peste. C’è bisogno di un miracolo, o di un’illusione. Cerca di costruirli padre Cascini, malandato ma gesuita, con tutta la saggezza e l’astuzia che questo comporta, grazie all’abile mano di un pittore in ascesa, il fiammingo van Dyck.
“La Santuzza è una rosa” è un romanzo storico interessante: mescola, come da prammatica, storia e invenzione, tratteggia con efficacia il profilo di personaggi reali (l’anziana pittrice Sofonisba Anguissola, il volitivo Antoon van Dick, l’invidioso Rubens, lo stesso Cascini, morto proprio per disfunzioni renali nel 1635) e si diverte con macchiette da commedia (le due suore Mano destra e Mano sinistra fanno tanto le gemelle cleptomani Pamela e Sue Ellen di “Come un gatto in tangenziale”: ecco, l’ho detto). Il pregio maggiore di questo romanzo è proprio la prosa, sciolta, scorrevole, affabile nonostante lo sfondo sia drammatico e la vicenda di Viciuzza sia intrisa di muto dolore.
E poi ci sono quelle pagine, dalla 229 alla 235, una specie di appendice a romanzo finito, in cui Torregrossa accetta che le si faccia compagnia nel viaggio a New York (un ritratto di Santa Rosalia di van Dyck è al Metropolitan) e lascia trasparire il dietro le quinte: come vengono le idee a uno scrittore? Come nascono le storie?
La conclusione è manzoniana “Se vi è piaciuto il racconto, allora è merito di Santa Rosalia; se al contrario vi siete annoiati, allora è colpa delle circostanze avverse”, e non potrebbe essere diversamente in un romanzo che mescola microstoria e macrostoria, e racconta che la salvezza sta sempre nella prima. E nella fantasia.
Secondo sua madre Viciuzza è una “babbasuna”. La donna si prostituisce nella Palermo del Seicento, e anche Viciuzza rischierà di rimanere prigioniera nel sudiciume morale e materiale dei vicoli.
La salva l’amicizia con Rosalia, una ragazzina povera come lei, che la aiuta (le appare?) nei momenti più drammatici e che il popolino racconta essere una santa. La salva il suo candore, all’apparenza così sciocco e ostinato, che nemmeno le privazioni e le violenze più sconce riescono a deturpare.
E la sfida a diventare donna, senza più diminutivi nel nome, quella figlia che ha partorito, frutto di una violenza sconosciuta.Mentre Viciuzza cerca salvezza per sé e per la creatura, Palermo cresce, si ingrossa di chiese e di rivalità tra ordini religiosi, e si ammala di peste. C’è bisogno di un miracolo, o di un’illusione. Cerca di costruirli padre Cascini, malandato ma gesuita, con tutta la saggezza e l’astuzia che questo comporta, grazie all’abile mano di un pittore in ascesa, il fiammingo van Dyck.
“La Santuzza è una rosa” è un romanzo storico interessante: mescola, come da prammatica, storia e invenzione, tratteggia con efficacia il profilo di personaggi reali (l’anziana pittrice Sofonisba Anguissola, il volitivo Antoon van Dick, l’invidioso Rubens, lo stesso Cascini, morto proprio per disfunzioni renali nel 1635) e si diverte con macchiette da commedia (le due suore Mano destra e Mano sinistra fanno tanto le gemelle cleptomani Pamela e Sue Ellen di “Come un gatto in tangenziale”: ecco, l’ho detto). Il pregio maggiore di questo romanzo è proprio la prosa, sciolta, scorrevole, affabile nonostante lo sfondo sia drammatico e la vicenda di Viciuzza sia intrisa di muto dolore.
E poi ci sono quelle pagine, dalla 229 alla 235, una specie di appendice a romanzo finito, in cui Torregrossa accetta che le si faccia compagnia nel viaggio a New York (un ritratto di Santa Rosalia di van Dyck è al Metropolitan) e lascia trasparire il dietro le quinte: come vengono le idee a uno scrittore? Come nascono le storie?
La conclusione è manzoniana “Se vi è piaciuto il racconto, allora è merito di Santa Rosalia; se al contrario vi siete annoiati, allora è colpa delle circostanze avverse”, e non potrebbe essere diversamente in un romanzo che mescola microstoria e macrostoria, e racconta che la salvezza sta sempre nella prima. E nella fantasia.
Rubrica a cura di Stefano Motta