Church pocket/16. La “Frociaggine”: i nuovi pubblicani e prostitute, commento alle affermazioni del Papa e la mia esperienza in seminario
Non si è parlato d’altro nelle ultime settimane che delle parole di Papa Francesco in merito alla formazione presbiterale delle odierne generazioni di vocazioni. Alcuni, anche tra voi lettori che mi conoscono personalmente, hanno chiesto delle spiegazioni e quindi mi è sembrato doveroso lasciare un mio commento.
Partiamo dai fatti: dopo le visite ad limina Apostolorum dei vescovi italiani divisi per regioni, durante la 77ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, tenutasi in Vaticano dal 22 al 25 maggio 2023, Papa Francesco ha utilizzato termini "coloriti" per descrivere l'ambiente dei seminari. Il Sommo Pontefice si lamentava con i vescovi italiani di un presunto affollamento dei seminari di “frociaggine”. Da qui un giovane della diocesi di La Spezia - Sarzana - Brugnato ha inviato al Papa una lettera il 28 maggio 2024 a seguito delle sue parole. La lettera racconta al Papa l'esperienza di fede di questo ventenne. La risposta del Papa non è volta a dire che il giovane potrà diventare sacerdote pur avendo dichiarato la sua sessualità. Le sue parole riprendono quelle del comunicato fatto uscire dalla Sala Stampa. Il Papa dice che nella Chiesa c'è posto per tutti. Nella Chiesa, appunto, non nel presbiterio.
Tanti si sono stupiti dalle durissime parole del Papa. Io no. Questo Pontefice non è nuovo in certe spezzanti uscite contro preti, vescovi, suore, cattolici ferventi, quasi mosso da un senso di disgusto verso queste figure. Ad esempio, alle suore, in udienza generale, nell’ottobre 2021 dice: «Siate madri, non zitelle: la castità deve essere feconda: una castità feconda che genera figli spirituali. La consacrata è madre. Siate madri come figure della chiesa madre, non si può capire Maria e la Chiesa senza la maternità, e voi siete icona di Maria e della Chiesa». Anche qui, l’uso della terminologia non è uno dei più felici, oltre che alquanto sessista. Ancora, pochi giorni dopo le affermazioni sui seminari, ai novelli preti della Diocesi di Roma dice: «Il chiacchiericcio è una roba da donne. Noi abbiamo i pantaloni, dobbiamo dire le cose». Non è questione di lingua, almeno non solo: qui è questione di concetto.
A mio avviso, da osservatore laico della struttura gerarchica della Chiesa, è l’ennesimo attacco al ministero presbiterale, tipicamente bergogliano. Aldilà della terminologia, sicuramente dura, il problema è l’idea di fondo: leggendo le parole nel loro contesto, il Papa fa un pericoloso collegamento tra omosessualità e pedofilia. Scendiamo nel dettaglio delle affermazioni. Al vescovo che gli chiede come risolvere il clericalismo tra i sacerdoti giovani, il Papa risponde inizialmente accostando il sacerdote omosessuale al concetto di sacerdote tradizionalista, tipico retaggio di un’idea di prete sessantottina. In quell’epoca di negazione della tradizione e del passato della Chiesa, infatti, il prete che si occupava con cura delle celebrazioni era tacciato di omosessualità. Continuando dice che ammettere un seminarista omosessuale crea un futuro presbitero omosessuale con problemi di difficile risoluzione, alludendo alla pedofilia. Arriva a dire addirittura che è meglio perdere una vocazione piuttosto che rischiare di aver un prete omosessuale. Ma quindi quel è il vero problema? Questo accostamento o almeno l’allusione, per me è raccapricciante. A mio avviso il problema, quello vero, non è l’orientamento sessuale dei candidati al presbiterato ma una reale e sana formazione relazionale, a prescindere dalla loro sessualità. L’omosessualità è una condizione di vita, la pedofilia è una malattia.
Il presbitero, mettendosi sul sentiero della vocazione e della vita consacrata, vive anche la vocazione al celibato per alcuni motivi.
L’imitazione di Cristo: Il celibato è visto come un modo per seguire l’esempio di Gesù Cristo, che secondo la tradizione cristiana era celibe. I sacerdoti, in quanto ministri di Cristo, cercano di imitarlo nel loro servizio e nelle loro scelte di vita;
Consacrazione totale al ministero: La scelta del celibato permette ai sacerdoti di dedicare completamente se stessi al loro ministero e alla cura delle persone a loro affidate;
Totale abbandono in Dio: Il celibato è anche un segno visibile del completo affidamento di sé a Dio e al servizio della Chiesa, per perseguire una vita di preghiera, di sacrificio, imitando il sacrificio di Cristo sulla croce.
Questi motivi non prevedono in alcun modo come requisito essenziale un determinato orientamento sessuale.
Anche la Bibbia, letta bene, nel contesto in cui è stata scritta, non offre in nessun modo una condanna alle persone omosessuali. Nelle lettere paoline, in particolare nella lettera ai Romani (1,18-32), la prima lettera a Timoteo (1, 8-11) e nella prima lettera ai Corinzi (6, 9-10), è bene notare che non si sta parlando di persone che sono omosessuali ed hanno una stabile attrazione verso persone dello stesso sesso. Si parla di uomini che, già impegnati con la loro moglie, talvolta stanno con uomini e compiono atti di sodomia. Del tema dell’omosessualità nella Bibbia dedicherò i prossimi scritti per sfatare ogni dubbio e togliere dalla bocca di Dio parole che, forse, gli abbiamo messo noi nel corso della lunga storia cristiana.
Rotornando alle parole del Papa, l’uso di questa terminologia per me dice molto di cosa pensa realmente Jorge Mario Bergoglio che è lontano da ciò che realmente accade nei seminari. Il Pontefice, purtroppo, offre una immagine degradata del presbitero e dell’Ordine Sacro.Io in seminario ci sono stato. Ci sono entrato a 17 anni, durante gli anni del liceo. Ho fatto un anno propedeutico nella mia diocesi di origine, l’Arcidiocesi di Capua, cinque anni al Seminario Maggione, a Napoli, e un anno da studenti a Roma. Ho coltivato amicizie che ancora oggi resistono al tempo, alla distanza, alla diversità di vita. Nel cuore porto i ricordi di “Zio Nik”, oggi Don Nicola De Sena, parroco di Somma Vesuviana, con il quale ho condiviso notti di studio, caffè al mattino prima della messa che gli passavo dalla finestra della stanza, pezzi di cammino e supporto del cuore, soprattutto nei momenti di sconforto emotivo e deserto della preghiera; “Baffone”, oggi Don Roberto Di Chiara, parroco in Irpinia, di cui ricordo le risate assordati con cui riempivamo il buio corridoio, i riassunti universitari che mi passava e le notti prima degli esami; Don Valerio Lucca, parroco di Grazzanise, in provincia di Caserta, nati a distanza di una ventina di giorni, primo compagno di stanza da quel 6 ottobre 2008, giorno in cui ho iniziato il cammino vocazionale in seminario; Giuseppe Ascoli, oggi marito e padre, con il quale ho condiviso, oltre a tutto il cammino vocazionale, anche il mio trasferimento qui in Lombardia. Oggi sono legato a lui e alla sua famiglia come padrino di battesimo del loro figlio Andrea.
A volte mi sento una vocazione “naufragata”: non c’è sera che non ripensi a quella scelta drastica, se aderente alla volontà di Dio, se non rispondere “eccomi” sia stata davvero la scelta migliore. Ricordare, a volte, la data di quella che sarebbe stata la mia ordinazione presbiterale genera in me un velo di sofferenza o malinconia. Alla fine mi sono riconciliato con Dio perché mi fa sempre sentire amato, ogni giorno, anche nella difficoltà, anche nella mia recente malattia, anche nella lontananza dalla mia terra natia e i miei cari più stretti. Questo lo dico non per fare una scena pietosa ma per far capire che con la vocazione non si scherza, che non ci si può permettere di dire o di sentire che è meglio perdere una vocazione piuttosto che rischiare di aver un prete omosessuale.
Il seminario è anche un luogo di sofferenza, dove la “potatura” di aspetti duri del carattere e della persona può far male. Questi tagli, a distanza di tempo, li benedico e li ringrazio perché hanno reso più forte soprattutto nella fragilità, sapendo utilizzare le debolezze come fondamento di un futuro punto di forza.
Questo è il seminario: rapporti, sentimenti, crescita, confronto, un cammino che ti lega per sempre, che supera ogni distanza, ogni diversità, ogni latitudine. Un cammino che rende uomini, viri probati, nel senso di adulti: ho donato la mia giovinezza alla Chiesa e questa me l’ha restituita rendendomi uomo, dandomi gli strumenti per vivere al meglio la mia dimensione umana, spirituale, vocazionale e culturale al meglio delle mie possibilità. E per questo sarò sempre grato a Dio, alla Chiesa e al seminario.
Partiamo dai fatti: dopo le visite ad limina Apostolorum dei vescovi italiani divisi per regioni, durante la 77ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, tenutasi in Vaticano dal 22 al 25 maggio 2023, Papa Francesco ha utilizzato termini "coloriti" per descrivere l'ambiente dei seminari. Il Sommo Pontefice si lamentava con i vescovi italiani di un presunto affollamento dei seminari di “frociaggine”. Da qui un giovane della diocesi di La Spezia - Sarzana - Brugnato ha inviato al Papa una lettera il 28 maggio 2024 a seguito delle sue parole. La lettera racconta al Papa l'esperienza di fede di questo ventenne. La risposta del Papa non è volta a dire che il giovane potrà diventare sacerdote pur avendo dichiarato la sua sessualità. Le sue parole riprendono quelle del comunicato fatto uscire dalla Sala Stampa. Il Papa dice che nella Chiesa c'è posto per tutti. Nella Chiesa, appunto, non nel presbiterio.
Tanti si sono stupiti dalle durissime parole del Papa. Io no. Questo Pontefice non è nuovo in certe spezzanti uscite contro preti, vescovi, suore, cattolici ferventi, quasi mosso da un senso di disgusto verso queste figure. Ad esempio, alle suore, in udienza generale, nell’ottobre 2021 dice: «Siate madri, non zitelle: la castità deve essere feconda: una castità feconda che genera figli spirituali. La consacrata è madre. Siate madri come figure della chiesa madre, non si può capire Maria e la Chiesa senza la maternità, e voi siete icona di Maria e della Chiesa». Anche qui, l’uso della terminologia non è uno dei più felici, oltre che alquanto sessista. Ancora, pochi giorni dopo le affermazioni sui seminari, ai novelli preti della Diocesi di Roma dice: «Il chiacchiericcio è una roba da donne. Noi abbiamo i pantaloni, dobbiamo dire le cose». Non è questione di lingua, almeno non solo: qui è questione di concetto.
A mio avviso, da osservatore laico della struttura gerarchica della Chiesa, è l’ennesimo attacco al ministero presbiterale, tipicamente bergogliano. Aldilà della terminologia, sicuramente dura, il problema è l’idea di fondo: leggendo le parole nel loro contesto, il Papa fa un pericoloso collegamento tra omosessualità e pedofilia. Scendiamo nel dettaglio delle affermazioni. Al vescovo che gli chiede come risolvere il clericalismo tra i sacerdoti giovani, il Papa risponde inizialmente accostando il sacerdote omosessuale al concetto di sacerdote tradizionalista, tipico retaggio di un’idea di prete sessantottina. In quell’epoca di negazione della tradizione e del passato della Chiesa, infatti, il prete che si occupava con cura delle celebrazioni era tacciato di omosessualità. Continuando dice che ammettere un seminarista omosessuale crea un futuro presbitero omosessuale con problemi di difficile risoluzione, alludendo alla pedofilia. Arriva a dire addirittura che è meglio perdere una vocazione piuttosto che rischiare di aver un prete omosessuale. Ma quindi quel è il vero problema? Questo accostamento o almeno l’allusione, per me è raccapricciante. A mio avviso il problema, quello vero, non è l’orientamento sessuale dei candidati al presbiterato ma una reale e sana formazione relazionale, a prescindere dalla loro sessualità. L’omosessualità è una condizione di vita, la pedofilia è una malattia.
Il presbitero, mettendosi sul sentiero della vocazione e della vita consacrata, vive anche la vocazione al celibato per alcuni motivi.
L’imitazione di Cristo: Il celibato è visto come un modo per seguire l’esempio di Gesù Cristo, che secondo la tradizione cristiana era celibe. I sacerdoti, in quanto ministri di Cristo, cercano di imitarlo nel loro servizio e nelle loro scelte di vita;
Consacrazione totale al ministero: La scelta del celibato permette ai sacerdoti di dedicare completamente se stessi al loro ministero e alla cura delle persone a loro affidate;
Totale abbandono in Dio: Il celibato è anche un segno visibile del completo affidamento di sé a Dio e al servizio della Chiesa, per perseguire una vita di preghiera, di sacrificio, imitando il sacrificio di Cristo sulla croce.
Questi motivi non prevedono in alcun modo come requisito essenziale un determinato orientamento sessuale.
Anche la Bibbia, letta bene, nel contesto in cui è stata scritta, non offre in nessun modo una condanna alle persone omosessuali. Nelle lettere paoline, in particolare nella lettera ai Romani (1,18-32), la prima lettera a Timoteo (1, 8-11) e nella prima lettera ai Corinzi (6, 9-10), è bene notare che non si sta parlando di persone che sono omosessuali ed hanno una stabile attrazione verso persone dello stesso sesso. Si parla di uomini che, già impegnati con la loro moglie, talvolta stanno con uomini e compiono atti di sodomia. Del tema dell’omosessualità nella Bibbia dedicherò i prossimi scritti per sfatare ogni dubbio e togliere dalla bocca di Dio parole che, forse, gli abbiamo messo noi nel corso della lunga storia cristiana.
Rotornando alle parole del Papa, l’uso di questa terminologia per me dice molto di cosa pensa realmente Jorge Mario Bergoglio che è lontano da ciò che realmente accade nei seminari. Il Pontefice, purtroppo, offre una immagine degradata del presbitero e dell’Ordine Sacro.Io in seminario ci sono stato. Ci sono entrato a 17 anni, durante gli anni del liceo. Ho fatto un anno propedeutico nella mia diocesi di origine, l’Arcidiocesi di Capua, cinque anni al Seminario Maggione, a Napoli, e un anno da studenti a Roma. Ho coltivato amicizie che ancora oggi resistono al tempo, alla distanza, alla diversità di vita. Nel cuore porto i ricordi di “Zio Nik”, oggi Don Nicola De Sena, parroco di Somma Vesuviana, con il quale ho condiviso notti di studio, caffè al mattino prima della messa che gli passavo dalla finestra della stanza, pezzi di cammino e supporto del cuore, soprattutto nei momenti di sconforto emotivo e deserto della preghiera; “Baffone”, oggi Don Roberto Di Chiara, parroco in Irpinia, di cui ricordo le risate assordati con cui riempivamo il buio corridoio, i riassunti universitari che mi passava e le notti prima degli esami; Don Valerio Lucca, parroco di Grazzanise, in provincia di Caserta, nati a distanza di una ventina di giorni, primo compagno di stanza da quel 6 ottobre 2008, giorno in cui ho iniziato il cammino vocazionale in seminario; Giuseppe Ascoli, oggi marito e padre, con il quale ho condiviso, oltre a tutto il cammino vocazionale, anche il mio trasferimento qui in Lombardia. Oggi sono legato a lui e alla sua famiglia come padrino di battesimo del loro figlio Andrea.
A volte mi sento una vocazione “naufragata”: non c’è sera che non ripensi a quella scelta drastica, se aderente alla volontà di Dio, se non rispondere “eccomi” sia stata davvero la scelta migliore. Ricordare, a volte, la data di quella che sarebbe stata la mia ordinazione presbiterale genera in me un velo di sofferenza o malinconia. Alla fine mi sono riconciliato con Dio perché mi fa sempre sentire amato, ogni giorno, anche nella difficoltà, anche nella mia recente malattia, anche nella lontananza dalla mia terra natia e i miei cari più stretti. Questo lo dico non per fare una scena pietosa ma per far capire che con la vocazione non si scherza, che non ci si può permettere di dire o di sentire che è meglio perdere una vocazione piuttosto che rischiare di aver un prete omosessuale.
Il seminario è anche un luogo di sofferenza, dove la “potatura” di aspetti duri del carattere e della persona può far male. Questi tagli, a distanza di tempo, li benedico e li ringrazio perché hanno reso più forte soprattutto nella fragilità, sapendo utilizzare le debolezze come fondamento di un futuro punto di forza.
Questo è il seminario: rapporti, sentimenti, crescita, confronto, un cammino che ti lega per sempre, che supera ogni distanza, ogni diversità, ogni latitudine. Un cammino che rende uomini, viri probati, nel senso di adulti: ho donato la mia giovinezza alla Chiesa e questa me l’ha restituita rendendomi uomo, dandomi gli strumenti per vivere al meglio la mia dimensione umana, spirituale, vocazionale e culturale al meglio delle mie possibilità. E per questo sarò sempre grato a Dio, alla Chiesa e al seminario.
Rubrica a cura di Pietro Santoro