Merate, confronto elettorale: "Ai candidati a sindaco do un suggerimento per una campagna veramente geniale"
Sala piena, pubblico partecipe, entusiasta, critico, ammirato. Molti applausi, una coda di chiacchiere, commenti, opinioni che si è protratta a lungo anche dopo la fine della serata e nei giorni successivi.
L’ultima volta che avevo moderato un appuntamento importante a Merate eravamo in auditorium e accanto a me c’era Vittorio Sgarbi, ed era andata così. Ci sono serate “di semina” e serate “di raccolta”: a me piacciono le prime, perché quando finiscono non sono mai finite del tutto.
Giovedì sera sono tornato a Merate, dopo qualche anno, ed è andata allo stesso modo. Sala piena, pubblico partecipe e tutto il resto. Ma non si parlava di pittura del Novecento né di Alessandro Manzoni: si parlava della situazione dell’ospedale, delle opportunità di sviluppo della città, del traffico su viale Verdi, della biblioteca che avrebbe bisogno di nuovi spazi, di palazzo Tettamanti e di Villa Confalonieri, dell’area Cazzaniga e della riserva naturale di Sartirana. Sembrano argomenti prosaici (ogni volta che ci si lamenta del traffico a me viene in mente la scena esilarante da “Johnny Stecchino”, altro che Manzoni), distanti dalla poesia della pittura e della letteratura. Ma non sono affatto cose piccole.
Si confrontavano, sul palco, i tre candidati sindaco per le elezioni del prossimo giugno: Massimo Panzeri, Dario Perego e Mattia Salvioni.
E la sala civica era strapiena, al punto da dover aprire le porte, con le persone assiepate anche alle uscite di sicurezza. Ed è un buon segno.
Era inevitabile che la serata iniziasse con gli applausi a comando delle claque (che non spostano un voto uno, e fanno molto Barbara d’Urso, eppure nemmeno il più geniale dei candidati può impedire ai propri lacchè di sbagliare), ma poi mi pare sia diventata sincera, anche pungente – se si vuole –, sicuramente interessante.
Depurate dagli stereotipi degli slogan e condotte con la convinzione e il garbo che ho trovato nei tre candidati, e con la partecipazione viscerale del pubblico, le campagne elettorali fanno bene alle città. Perché intaccano certezze, smuovono energie, chiamano in causa le persone, seminano idee. Le città raccontate in campagna elettorale sono sempre eccessive, polarizzate: più belle di quanto siano nella testa di chi le ha sin lì amministrate, più disastrate di quanto effettivamente sono nelle parole di chi ha fatto opposizione e si candida contro l’amministrazione uscente. È il gioco delle parti, si sa. È difficile trovare una città reale nei programmi degli uni e degli altri: può essere un difetto, una mancanza di pragmatismo, un azzardo, un sogno, o può essere una virtù. Credo che sia un dovere in chi si candida ad amministrare una città. Chi parla al bar può avvitarsi nelle lamentele inconcludenti, o può sciorinare ricette miracolose autocompiacendosi delle proprie idee balzane (e qualcuna s’è sentita anche giovedì sera, ed è andato bene così). Chi amministra ha il dovere di avere la testa tra le nuvole e i piedi ben piantati per terra: deve voler guardare lontano e saper camminare con passi piccoli, accettando anche gli inciampi delle pastoie burocratiche.
Ho cercato di provocare i tre candidati, giovedì sera, su questi aspetti. So che non me ne hanno voluto male: per una ragione o per l’altra mi legano a loro rapporti di cordiale amicizia, e di stima. La stessa che mi sono permesso di ricordare alle centinaia di persone presenti: occorre essere profondamente grati a chi decide di intraprendere questa sfida, mettendo faccia, idee, tempo e risorse a disposizione di un’idea e della città, di “un’idea di città”.
Su questo avrei voluto avere ancora tempo per chiacchierare con loro, più che di traffico e semafori. Mi ritaglio questo cantuccio, visto che posso.
Per chi si candida ad amministrare una città dove alcuni grandi architetti del Novecento hanno lavorato, la frase di uno dei grandissimi può essere da guida: «Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola. Basta ascoltarla, perché la città, è il riflesso di tante storie», dice Renzo Piano. Quali storie racconta Merate? Qual è il suo “genius loci”, direbbero i latini, la sua vocazione intrinseca, da valorizzare e non snaturare?
Si è discusso tanto dei “luoghi” della città da migliorare, rigenerare, far vivere. Qual è la loro anima, fuggevole, misteriosa, che può renderli “geniali”, cioè “germinali”, “generativi”?
E avrei voluto chiedere di Manzoni (ovviamente, si dirà, conoscendomi). Ci sono città rese grandi da chi vi ha vissuto e città che rendono grandi chi le abita: Merate ha accolto Alessandro Manzoni bambino e l’ha riconsegnato ragazzo, quasi fatto uomo. Sta facendo ancora questo con i propri giovani?
Nella ricerca di un “brand” che possa rendere attrattiva la città mi permetto di ricordare, oltre al lago di Sartirana, al San Leopoldo Mandic, al “castello”, anche Alessandro Manzoni, che non è solo una via (da pedonalizzare, come proponeva qualcuno?) o il nome di una scuola. È uno dei “geni” che questo luogo ha prodotto, un piccolo seme, per far crescere Merate, in armonia con la sua vocazione, il suo “genius”.
L’ultima volta che avevo moderato un appuntamento importante a Merate eravamo in auditorium e accanto a me c’era Vittorio Sgarbi, ed era andata così. Ci sono serate “di semina” e serate “di raccolta”: a me piacciono le prime, perché quando finiscono non sono mai finite del tutto.
Giovedì sera sono tornato a Merate, dopo qualche anno, ed è andata allo stesso modo. Sala piena, pubblico partecipe e tutto il resto. Ma non si parlava di pittura del Novecento né di Alessandro Manzoni: si parlava della situazione dell’ospedale, delle opportunità di sviluppo della città, del traffico su viale Verdi, della biblioteca che avrebbe bisogno di nuovi spazi, di palazzo Tettamanti e di Villa Confalonieri, dell’area Cazzaniga e della riserva naturale di Sartirana. Sembrano argomenti prosaici (ogni volta che ci si lamenta del traffico a me viene in mente la scena esilarante da “Johnny Stecchino”, altro che Manzoni), distanti dalla poesia della pittura e della letteratura. Ma non sono affatto cose piccole.
Si confrontavano, sul palco, i tre candidati sindaco per le elezioni del prossimo giugno: Massimo Panzeri, Dario Perego e Mattia Salvioni.
E la sala civica era strapiena, al punto da dover aprire le porte, con le persone assiepate anche alle uscite di sicurezza. Ed è un buon segno.
Era inevitabile che la serata iniziasse con gli applausi a comando delle claque (che non spostano un voto uno, e fanno molto Barbara d’Urso, eppure nemmeno il più geniale dei candidati può impedire ai propri lacchè di sbagliare), ma poi mi pare sia diventata sincera, anche pungente – se si vuole –, sicuramente interessante.
Depurate dagli stereotipi degli slogan e condotte con la convinzione e il garbo che ho trovato nei tre candidati, e con la partecipazione viscerale del pubblico, le campagne elettorali fanno bene alle città. Perché intaccano certezze, smuovono energie, chiamano in causa le persone, seminano idee. Le città raccontate in campagna elettorale sono sempre eccessive, polarizzate: più belle di quanto siano nella testa di chi le ha sin lì amministrate, più disastrate di quanto effettivamente sono nelle parole di chi ha fatto opposizione e si candida contro l’amministrazione uscente. È il gioco delle parti, si sa. È difficile trovare una città reale nei programmi degli uni e degli altri: può essere un difetto, una mancanza di pragmatismo, un azzardo, un sogno, o può essere una virtù. Credo che sia un dovere in chi si candida ad amministrare una città. Chi parla al bar può avvitarsi nelle lamentele inconcludenti, o può sciorinare ricette miracolose autocompiacendosi delle proprie idee balzane (e qualcuna s’è sentita anche giovedì sera, ed è andato bene così). Chi amministra ha il dovere di avere la testa tra le nuvole e i piedi ben piantati per terra: deve voler guardare lontano e saper camminare con passi piccoli, accettando anche gli inciampi delle pastoie burocratiche.
Ho cercato di provocare i tre candidati, giovedì sera, su questi aspetti. So che non me ne hanno voluto male: per una ragione o per l’altra mi legano a loro rapporti di cordiale amicizia, e di stima. La stessa che mi sono permesso di ricordare alle centinaia di persone presenti: occorre essere profondamente grati a chi decide di intraprendere questa sfida, mettendo faccia, idee, tempo e risorse a disposizione di un’idea e della città, di “un’idea di città”.
Su questo avrei voluto avere ancora tempo per chiacchierare con loro, più che di traffico e semafori. Mi ritaglio questo cantuccio, visto che posso.
Per chi si candida ad amministrare una città dove alcuni grandi architetti del Novecento hanno lavorato, la frase di uno dei grandissimi può essere da guida: «Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola. Basta ascoltarla, perché la città, è il riflesso di tante storie», dice Renzo Piano. Quali storie racconta Merate? Qual è il suo “genius loci”, direbbero i latini, la sua vocazione intrinseca, da valorizzare e non snaturare?
Si è discusso tanto dei “luoghi” della città da migliorare, rigenerare, far vivere. Qual è la loro anima, fuggevole, misteriosa, che può renderli “geniali”, cioè “germinali”, “generativi”?
E avrei voluto chiedere di Manzoni (ovviamente, si dirà, conoscendomi). Ci sono città rese grandi da chi vi ha vissuto e città che rendono grandi chi le abita: Merate ha accolto Alessandro Manzoni bambino e l’ha riconsegnato ragazzo, quasi fatto uomo. Sta facendo ancora questo con i propri giovani?
Nella ricerca di un “brand” che possa rendere attrattiva la città mi permetto di ricordare, oltre al lago di Sartirana, al San Leopoldo Mandic, al “castello”, anche Alessandro Manzoni, che non è solo una via (da pedonalizzare, come proponeva qualcuno?) o il nome di una scuola. È uno dei “geni” che questo luogo ha prodotto, un piccolo seme, per far crescere Merate, in armonia con la sua vocazione, il suo “genius”.
Stefano Motta