La Brianza, culla silenziosa e sconosciuta di capolavori
Il lungo contributo di Renato Ornaghi, alla ricerca dei luoghi che possono aver ispirato Leopardi per l’idea del “Passero solitario” è molto interessante, e quand’anche fosse solo una suggestione, mi permetto di chiosarlo con qualche noticina in più.
Da sempre eruditi e appassionati cercano le origini topografiche dei capolavori. È destino riservato alle grandi opere quelle di essere tirate con i piedi per terra, e legate, in qualche modo, a precise evidenze geografiche, financo – quando possibile – a indirizzi e numeri civici precisi. Accadde da subito ai “Promessi sposi”, con lunghe disamine erudite sulla collocazione del paesello, sulla presunta casa di Lucia, sul palazzotto di don Rodrigo, sulla rocca dell’innominato. Ci si dedicò Stoppani, e Bindoni, e molti dopo di loro, con risultati di una acribia sorprendente. Come novelli Schliemann presero alla lettera le pagine del romanzo e, carte alla mano, riportarono distanze e planimetrie.
Si può dire che sia stato un lavoro inutile ai fini dell’interpretazione letteraria, ma quando le proloco degli anni Duemila vendono grossolanamente la rocca di Somasca come il castello dell’innominato vien voglia di tornare a quei fini eruditi di fine Ottocento, e risalire oltre Erve, infrattandosi in Val Saìna, per trovare davvero l’”aspra giogaia di monti”, il “torrentaccio”, i cippi confinari, i luoghi veri di un personaggio verosimile, l’innominato, che nella realtà visse a Brignano della Gera d’Adda.
Ornaghi suggerisce di aggiungere un nuovo tassello all’atlante dei luoghi letterari della Brianza, culla silenziosa e dimessa di capolavori. Sono piccole tracce, piccoli indizi di un tour che potrà condurre proprio ai luoghi germinali di alcuni romanzi eterni.
Chi ha amato “Il cavallo rosso” di Eugenio Corti (io no, continuo a ritenerlo sopravvalutato da un’ottima campagna di marketing settario) sa di poterlo ritrovare tra Monticello, Besana, Renate. Chi conosce “La cognizione del dolore” sa quanto Longone abbia dato a Gadda. Se si vuole cercare qualche traccia di Marina di “Malombra” occorre andare su Segrino, dove Fogazzaro collocò il palazzo d’Ormengo, la cui struttura è però quella della Villa Pliniana a Torno, sul lago di Como. Chi voglia ricostruire il “giallo” delle turpitudini di Gian Paolo Osio cercherà tracce della Gertrude manzoniana nella toponomastica di Monza, o controllerà l’ubicazione del “pozzone” di Velate dove vennero gettate due suore complici dei misfatti.
Chi voglia respirare le atmosfere germinali di quel grandissimo capolavoro che è “Il Gattopardo” deve invece andare a San Pellegrino Terme. Palermo, Donnafugata (che non esiste), lo zione don Fabrizio, Tancredi e Angelica – come molti sanno – nascono lì, nel 1954, nel salone del Kursaal.
E quando saranno stati compiuti questi pellegrinaggi un po’ feticistici sui luoghi presunti veri di storie dichiaratamente false, cosa avremo imparato?
Delusione, tanta, per un territorio incapace di valorizzarsi come scrigno da custodire e sempre freneticamente in corsa per costruire, ammodernare, produrre (occorrono laboriosi e inconcludenti sforzi di fantasia per risalire alla passeggiata di don Abbondio quando ci si affaccia al deturpato “tabernacolo dei bravi” sulla strada vecchia che da Lecco conduce ai piani d’Erna). E consapevolezza: che la letteratura non ricalca mondi esistenti ma crea universi nuovi. Per questo la “torre antica” del “Passero solitario” potrà anche essere stata il Campanone di Brianza, ma non sarà mai solo quella, di cui infiniti orecchi hanno ascoltato il rintocco ma che solo la penna di Leopardi ha reso immortale.
Schiere di utenti attraversano oggi la hall delle terme di San Pellegrino e nessuno di loro è Tomasi di Lampedusa.
L’artista è un saccheggiatore e un baro: mentre gesticola con una mano, con l’altra nasconde i suoi trucchi più segreti. C’è talvolta un piacere sottile nello smascherarli, anche se questo fa scadere nella prosaicità quell’inganno che prima era solo squisita e menzognera poesia.
E c’è l’orgoglio musone del brianzolo – grazie a Renato Ornaghi per avercelo ricordato – che vede riconosciuto ciò che lui già sapeva: che la nostra terra è terra di poesia.
Da sempre eruditi e appassionati cercano le origini topografiche dei capolavori. È destino riservato alle grandi opere quelle di essere tirate con i piedi per terra, e legate, in qualche modo, a precise evidenze geografiche, financo – quando possibile – a indirizzi e numeri civici precisi. Accadde da subito ai “Promessi sposi”, con lunghe disamine erudite sulla collocazione del paesello, sulla presunta casa di Lucia, sul palazzotto di don Rodrigo, sulla rocca dell’innominato. Ci si dedicò Stoppani, e Bindoni, e molti dopo di loro, con risultati di una acribia sorprendente. Come novelli Schliemann presero alla lettera le pagine del romanzo e, carte alla mano, riportarono distanze e planimetrie.
Si può dire che sia stato un lavoro inutile ai fini dell’interpretazione letteraria, ma quando le proloco degli anni Duemila vendono grossolanamente la rocca di Somasca come il castello dell’innominato vien voglia di tornare a quei fini eruditi di fine Ottocento, e risalire oltre Erve, infrattandosi in Val Saìna, per trovare davvero l’”aspra giogaia di monti”, il “torrentaccio”, i cippi confinari, i luoghi veri di un personaggio verosimile, l’innominato, che nella realtà visse a Brignano della Gera d’Adda.
Ornaghi suggerisce di aggiungere un nuovo tassello all’atlante dei luoghi letterari della Brianza, culla silenziosa e dimessa di capolavori. Sono piccole tracce, piccoli indizi di un tour che potrà condurre proprio ai luoghi germinali di alcuni romanzi eterni.
Chi ha amato “Il cavallo rosso” di Eugenio Corti (io no, continuo a ritenerlo sopravvalutato da un’ottima campagna di marketing settario) sa di poterlo ritrovare tra Monticello, Besana, Renate. Chi conosce “La cognizione del dolore” sa quanto Longone abbia dato a Gadda. Se si vuole cercare qualche traccia di Marina di “Malombra” occorre andare su Segrino, dove Fogazzaro collocò il palazzo d’Ormengo, la cui struttura è però quella della Villa Pliniana a Torno, sul lago di Como. Chi voglia ricostruire il “giallo” delle turpitudini di Gian Paolo Osio cercherà tracce della Gertrude manzoniana nella toponomastica di Monza, o controllerà l’ubicazione del “pozzone” di Velate dove vennero gettate due suore complici dei misfatti.
Chi voglia respirare le atmosfere germinali di quel grandissimo capolavoro che è “Il Gattopardo” deve invece andare a San Pellegrino Terme. Palermo, Donnafugata (che non esiste), lo zione don Fabrizio, Tancredi e Angelica – come molti sanno – nascono lì, nel 1954, nel salone del Kursaal.
E quando saranno stati compiuti questi pellegrinaggi un po’ feticistici sui luoghi presunti veri di storie dichiaratamente false, cosa avremo imparato?
Delusione, tanta, per un territorio incapace di valorizzarsi come scrigno da custodire e sempre freneticamente in corsa per costruire, ammodernare, produrre (occorrono laboriosi e inconcludenti sforzi di fantasia per risalire alla passeggiata di don Abbondio quando ci si affaccia al deturpato “tabernacolo dei bravi” sulla strada vecchia che da Lecco conduce ai piani d’Erna). E consapevolezza: che la letteratura non ricalca mondi esistenti ma crea universi nuovi. Per questo la “torre antica” del “Passero solitario” potrà anche essere stata il Campanone di Brianza, ma non sarà mai solo quella, di cui infiniti orecchi hanno ascoltato il rintocco ma che solo la penna di Leopardi ha reso immortale.
Schiere di utenti attraversano oggi la hall delle terme di San Pellegrino e nessuno di loro è Tomasi di Lampedusa.
L’artista è un saccheggiatore e un baro: mentre gesticola con una mano, con l’altra nasconde i suoi trucchi più segreti. C’è talvolta un piacere sottile nello smascherarli, anche se questo fa scadere nella prosaicità quell’inganno che prima era solo squisita e menzognera poesia.
E c’è l’orgoglio musone del brianzolo – grazie a Renato Ornaghi per avercelo ricordato – che vede riconosciuto ciò che lui già sapeva: che la nostra terra è terra di poesia.
prof. Stefano Motta