A Claudio Massaroli - Non innamorarti della tua idea.
Un Maestro che non dimenticherò mai si chiama Claudio Massaroli ed è stato uno dei migliori medici che abbia incontrato. Nell’epoca delle super-specializzazioni chi conosce la medicina interna come la conosceva mio padre Abele è per me quasi un mito: è la vera accezione di medico e terapeuta, ciò che tutti dovremmo essere e diventare. Claudio era così: niente sfuggiva al suo intuito, niente passava indenne dalle maglie strette della sua competenza scientifica. Mi ha insegnato a ragionare, vedere, mettere insieme i dati per ottenere il meglio per ogni singola persona.
Durante gli anni dell’università decisi di frequentare l’Ospedale di Merate: seguivo le lezioni al San Raffaele (prima che diventasse università privata) e volevo che l’internato si svolgesse nel reparto dove mio padre aveva lavorato per tanti anni. Con la mia amica Raffaella Milani, iscritta allo stesso anno e testa geniale diventata un’ematologa sapiente dopo una laurea con lode e menzione d’onore, andammo a Merate al San Leopoldo Mandic e ci presentammo in Medicina per conoscere i medici che ci avrebbero seguito e istruito come tutor. Quando leggo che quell’ospedale rischia la chiusura a beneficio del più grande nosocomio di Lecco mi rendo conto di quanto la cura abbia perso la dimensione umana: lì ho imparato più di quanto abbia appreso in ogni altro luogo, estero compreso, e ho vissuto un’integrazione vera tra empatia e scienza. Quando mia madre e mia zia hanno avuto problemi di salute non ho esitato un istante e ho suggerito il ricovero a Merate: lo farei ancora mille volte, anche se i medici stanno via via cambiando e devo ripassare l’ordine di corridoi che non ricordo o è stato cambiato. Raffaella e io arrivammo un po’ intimidite e fummo affidate a due aiuti della divisione (oggi si direbbe vice-direttori): Claudio per me e Aurelio Castelnuovo per lei.
Durante gli anni dell’università decisi di frequentare l’Ospedale di Merate: seguivo le lezioni al San Raffaele (prima che diventasse università privata) e volevo che l’internato si svolgesse nel reparto dove mio padre aveva lavorato per tanti anni. Con la mia amica Raffaella Milani, iscritta allo stesso anno e testa geniale diventata un’ematologa sapiente dopo una laurea con lode e menzione d’onore, andammo a Merate al San Leopoldo Mandic e ci presentammo in Medicina per conoscere i medici che ci avrebbero seguito e istruito come tutor. Quando leggo che quell’ospedale rischia la chiusura a beneficio del più grande nosocomio di Lecco mi rendo conto di quanto la cura abbia perso la dimensione umana: lì ho imparato più di quanto abbia appreso in ogni altro luogo, estero compreso, e ho vissuto un’integrazione vera tra empatia e scienza. Quando mia madre e mia zia hanno avuto problemi di salute non ho esitato un istante e ho suggerito il ricovero a Merate: lo farei ancora mille volte, anche se i medici stanno via via cambiando e devo ripassare l’ordine di corridoi che non ricordo o è stato cambiato. Raffaella e io arrivammo un po’ intimidite e fummo affidate a due aiuti della divisione (oggi si direbbe vice-direttori): Claudio per me e Aurelio Castelnuovo per lei.
Trascorrere intere giornate a seguire Claudio in reparto e nei turni che comprendevano il pronto soccorso è stato drammaticamente importante: potevo restare con lui in tutte le fasi del lavoro e ho assistito alle riunioni di reparto, alle discussioni sui casi clinici, al giro visite, agli interventi in urgenza. Integravo con la frequenza di prima mattina per imparare dagli infermieri i prelievi venosi e arteriosi e la gestione delle terapie: Abele mi aveva spiegato con molta chiarezza che alcune procedure delicate vanno apprese dagli infermieri perché hanno una manualità molto migliore e sono più esperti (verissimo, la stessa cosa vale per le medicazioni delle ferite chirurgiche). Ciò che ammiravo di Claudio era la prontezza nello stabilire le ipotesi, la riflessione ininterrotta e la capacità di confrontarsi accettando sempre i punti di vista altrui come elementi validi per modificare, ampliare, rivedere le sue ipotesi.
Un pomeriggio in cui ero a Merate per seguirlo nel suo turno lungo (8–20) stavamo chiacchierando dopo un caffè preso alla macchinetta quando il cicalino di Claudio si mise a squillare con il tono dell’urgenza.
- PS.
Disse solo, e scattò verso il corridoio. Era il pronto soccorso. A volte facevo fatica a capire subito cosa dicesse perché aveva una erre moscia più marcata della mia e non muoveva le labbra mentre parlava: aveva un sorriso storto solo da un lato e occhi vispissimi e sempre lucidi, con una capigliatura arruffata che credo non abbia mai pettinato se non con le mani.
Al pronto soccorso ci trovammo davanti un giovane sdraiato sul lettino e completamente contorto: ogni parte del suo corpo era in una contrattura tetanica, cioè in posizione anomala e totale spasticità. Anche il volto era deformato: credo che ogni muscolo fosse in quello stato, nessuna parte di lui era minimamente rilassata. Un signore più anziano, suo padre, lo osservava attonito da un angolo della stanza.
Claudio si avvicinò e provò a forzare la spasticità di un braccio: niente. Tentò alcune manovre sul collo e sul viso: ancora niente.
- E’ disabile da sempre?
- Non è disabile, è un ragazzo sanissimo. All’improvviso è… Diventato così.
Ricordo gli occhi di questo ragazzo spaventato: fissavano Claudio e cercavano me, sembravano prigionieri di un corpo che aveva smesso di ragionare. Non avevo la minima idea di cosa si dovesse fare: non riuscivo a smettere di guardarlo e ringraziavo Dio di non dovere decidere per una terapia che ignoravo.
- Chiamate un anestesista. Ha avuto nausea?
Il padre si avvicinò: sembrava che avesse paura di osservare suo figlio. In effetti era impressionante: un grumo di muscoli tetanici in una posizione improbabile, la testa con un angolo estremo rispetto al collo.
- Sì, da un paio di giorni.
- Ha preso farmaci per la nausea?
- Sì, un paio di pastiglie.
L’anestesista arrivò e, aiutata da un paio di infermieri, portò via il paziente. Claudio mi fece un cenno e ritornammo in Medicina.
- Hai capito cosa ha avuto?
- Assolutamente no. Un ictus?
- No, stasera lo vedrai uscire dall’anestesia sciolto e risanato. Almeno spero.
- Ma cosa ha avuto?
- E’ un effetto collaterale da farmaci. Può capitare ma non ne avevo mai visto uno. Reazione extrapiramidale.
Da quel giorno assumo pochissimo un certo tipo di farmaco: so che è irrazionale ed è anche un errore lasciarsi condizionare, ma non posso dimenticare ciò che ho visto. A parte questa considerazione personale, quando ripenso a quel pomeriggio sono ammirata dalla prontezza, dalla calma e dalla sicurezza che Claudio manifestò esprimendo al primo colpo una diagnosi che a me sarebbe costata ore di ricerca. La sua idea fulminea aveva portato a una risoluzione dei sintomi molto veloce: la sera, infatti, il ragazzo stava bene e sembrava un’altra persona rispetto alla figura contratta e disperata sul lettino del pronto soccorso. Claudio mi spiegò molte cose sulle reazioni avverse di alcuni farmaci: approfittava di ogni occasione per mettere lì una lezione improvvisata e accuratissima, niente lo coglieva impreparato. Appresi cosa accade nelle reazioni extrapiramidali da farmaci e come prescrivere una cura, mi raccontò alcuni casi diversi da quello che avevo visto in cui le terapie avevano generato grossi problemi.
Claudio era onesto, leale nei confronti dei pazienti e dei colleghi, rispettoso dei ruoli ma anche deciso a manifestare in pieno la propria opinione negli scambi accesi sui casi meno facili. Una volta fu ricoverato un uomo di sessantacinque anni con un ittero di natura da determinare: in quella Divisione di Medicina l’epatologia era molto sviluppata, tutti i problemi del fegato e delle vie biliari erano oggetto di grande attenzione. Per varie ragioni non era facile intuire di cosa soffrisse il paziente, c’era da decidere quali esami prescrivere prima e con quali obiettivi. Aurelio e Claudio iniziarono a discutere animatamente, mentre Raffaella scriveva sul suo taccuino con la grafia piccola e perfetta e io muovevo la testa da uno all’altro come se assistessi a una partita di tennis.
- Non puoi essere così ostinato, ti fissi su un’ipotesi e non ti muovi da lì.
Aurelio cercava di convincere Claudio che il suo punto di vista non fosse esattamente centrato, ma otteneva solo un rilancio della medesima ipotesi con un tono di voce più alto. Alla fine nessuno dei due mollò la presa: Aurelio e Raffaella uscirono e Claudio si immerse nella lettura di alcuni testi, poi deviò lo sguardo fuori dalla finestra, in silenzio. C’erano giorni di tempo piovoso nel suo umore: non era antipatico, solo riduceva al minimo i contatti umani. Mi ero abituata a controllare cosa accadesse alle ombre e alle luci del suo viso: non ho grandi problemi con chi è mutevole o si inabissa nelle proprie tenebre, mi limito ad aspettare. Non ricordo se Claudio fosse uno Scorpione, ma potrebbe essere così. Rimasi ferma ad aspettare: afferrai il primo giornale medico che trovai e feci finta di leggere. Poi con la coda dell’occhio lo vidi alzarsi.
- Vieni.
Raggiungemmo Aurelio, Claudio lo chiamò fuori da una stanza.
- Ho capito, hai ragione tu. Effettivamente mi sono sbagliato. Credo che la tua idea sia quella giusta, vado a prescrivere gli esami che hai in mente.
Aurelio non disse niente, ripresi a correre dietro Claudio che adesso aveva l’urgenza di fare partire gli accertamenti del paziente. Dopo avere dato le disposizioni dagli infermieri si rivolse a me:
- Non innamorarti mai della tua idea, è molto pericoloso. Stavo sbagliando, prima, perché mi sembrava un costrutto perfetto: nella mia testa tutto quadrava. Ma stavo sbagliando. Non innamorarti della tua idea, rischi di fare il male dei pazienti.
Non l’ho mai visto fare il male dei pazienti, anche se mi raccontò con molta onestà alcuni errori che nel tempo aveva commesso. Quando penso all’essere un vero medico mi viene in mente lui, insieme ad Abele e ad altre Maestre e Maestri che ho avuto il privilegio di conoscere. Un altro episodio ritorna spesso nella mia memoria, e riguarda ancora Claudio nel periodo del mio apprendimento a Merate. Era di nuovo di guardia anche per il pronto soccorso, ma venne chiamato per una consulenza non urgente che volle fare subito. Arrivammo al letto di un uomo sulla cinquantina che scambiò qualche parola con noi, poi vidi avvicinarsi una collega con una siringa in mano: sorrideva al paziente e gli disse che gli avrebbe fatto una piccola iniezione. A questo punto il mio racconto deve per forza procedere per immagini perché tutto si svolse nel giro di alcuni secondi: morire oppure salvare una vita, questione di un lampo. La collega si chinò e inserì l’ago nel braccio, gli occhi di Claudio da rilassati si fecero acutissimi, balzò avanti e nello stesso momento mi ordinò: “Chiama un rianimatore, di corsa”. Mentre, senza ragionare, imponevo al mio corpo di scattare notai che l’uomo era vigile e non capiva cosa stesse accadendo, ma una frazione di secondo dopo la sua testa crollò indietro. Mi spostai: Claudio stava facendo il massaggio cardiaco al paziente, i rianimatori lo sostituirono e l’uomo riprese il battito e la coscienza. La collega piangeva in un angolo.
Al termine dell’emergenza Claudio indicò una fiala che la collega aveva usato per riempire la siringa:
- Guarda bene questo. Mai, mai, mai somministrare direttamente. Sempre in una soluzione fisiologica con insulina. Altrimenti l’arresto cardiaco è immediato.
- Non dici niente alla collega?
- Non serve. Penso che si ricorderà questo momento per tutta la vita.
E’ vero: gli errori non si dimenticano più. Ho la memoria dettagliata e precisa di un uomo a cui sbagliai la diagnosi: nonostante i tentativi di rassicurazione da parte di chi era presente e valutò l’accaduto non posso eliminare il senso sconfortante di non potere più cambiare le cose. Nessuno ebbe da ridire: il caso fu trattato con chiarezza e onestà, la situazione spiegata in pieno ai parenti, fui trattata con molta gentilezza anche da loro. Ma il giudice più severo è dentro di noi, e per quell’errore devo ancora trovare una pace. Claudio salvò una vita davanti a me grazie allo sguardo, all’intuito, alla prontezza: era già addosso al paziente prima che perdesse conoscenza. Nessuno può dire cosa farebbe se si trovasse nelle medesime circostanze: certo è che un’azione così fulminea mi ha impressionato.
La medicina è il mondo affascinante e complesso che ho scelto di abitare. Quando ripercorro la strada che ho già battuto mi rendo conto che ci sono nomi che la storia dovrebbe celebrare per la profondità del contributo che hanno dato con amore e conoscenza: Claudio Massaroli, per esempio, che nella vita privata mi ha affascinato per l’amore assoluto nei confronti della moglie e per la passione per l’orto. Mi sono chiesta cosa abbia pensato quando, tanti anni dopo, gli è stata fatta una certa diagnosi che ha richiesto una chirurgia e cure pesanti: la sua mente ha accettato o ha negato? Ha interiorizzato il significato o si è lasciato scivolare sui tentativi altrui di attenuare la notizia, decidendo di credere a ciò in cui non aveva mai creduto? Avrà mai avuto la percezione di quanto gli fossi grata, di quanto lo ammirassi e lo considerassi uno tra i migliori? La sua umiltà era grande, l’atteggiamento semplice e il sorriso storto che illuminava la faccia con la erre a tratti incomprensibile resteranno a farmi compagnia: nella sua piena scientificità occidentale ha usato l’Amore, ha avuto a cuore ogni paziente e ha curato con severità e leggerezza la formazione di una medico che sperava di fare innamorare ancora di più della medicina.
Non serve essere sciamani o poderosamente alternativi per fare notizia in un libro o ai seminari: è importante incarnare la Cura nel significato pieno, indipendentemente dall’approccio che si è scelto e dedicandosi con Amore e passione, per portare a termine ogni compito con la Stella della propria opera compiuta agli occhi.
Claudio, grazie. Ho corretto il tempo verbale di questo scritto perché da oggi devo usare il passato per descriverti e sto piangendo molto per avere dovuto farlo.
Giovanna Gatti