LIBRI CHE RIMARRANNO/102: “Il cenacolo delle donne” di Matilde Tortora

Nella casa che Manzoni acquistò in contrada del Morone, a Milano, ci sono due stanze in cui, più che in altre, si possono quasi risentire le voci di chi le popolò: la “sala rossa”, al primo piano, dove Manzoni invitava gli amici più cari, leggeva loro ad alta voce le pagine del romanzo cui stava lavorando, controllava le loro reazioni, chiedeva suggerimenti, “scriveva” con loro, e una stanza al pian terreno, “l’isola di Giava”, dove viveva il Grossi e dove si scambiavano i motti più liberali dello spirito, le “giavanate”, per dirla in milanese.
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E poi c’è una stanza immaginata, dove la conversazione è più garrula, o triste, a seconda della voce che parla. È una stanza che in nessun tour guidato sui luoghi o nella biografia di Manzoni si può visitare, a meno di ricostruirla recuperando arredi e suppellettili che sono stati dispersi qua e là nelle pagine dei Promesssi sposi, dell’epistolario e delle altre opere di Manzoni. In questa stanza sono le donne a parlare, le donne della vita e le donne delle carte di Manzoni. La mamma, Giulia Beccaria, le due mogli Enrichetta e Teresa, le figlie, dalla malmaritata Giulietta alla sofferente Matilde, a Vittoria, la bambinaia toscana Emilia Luti, e poi Lucia, Agnese, Perpetua, Gertrude, donna Prassede, la moglie del sarto di Chiuso, la madre della piccola Cecilia e non solo. Messe una in fila all’altra restituiscono il cicaleccio vivido in sottofondo alla voce del primo scrittore che ebbe il coraggio di mettere una donna al centro del proprio capolavoro. Non solo come oggetto del desiderio o salvifico deus ex machina, ma come vero motore della vicenda, primo e principale soggetto agente, protagonista.
Nel librettino di Matilde Tortora, “Il cenacolo delle donne” (Graus Edizioni, Napoli 2023, pagg. 78, Euro 15), sono le donne di Manzoni a parlare. Le loro storie si inseguono, quasi che si dessero sulla voce, riprendendo la chiusa della pagina precedente, ribattendosi “sulle rime”, come si diceva, con toni talvolta dissonanti. L’idea è interessante ma il gioco del metateatro e della metabiografia è difficile, quasi pirandelliano: non talvolta la penna di Tortora sembra inciampare in qualche leziosità o, al contrario, in un eccesso di didascalismo. Ma, si diceva, lo spunto è interessante: ognuna di loro avrebbe potuto dire, guardando a un personaggio del romanzo, “Lucia c’est moi”, o “Agnese c’est moi”, perché (auto)biografia e letteratura si confondono nelle pagine dei Promessi sposi, e davvero Manzoni ha ritagliato la stoffa dei suoi personaggi da sé stesso, e dalle voci che lo circondavano.
Il libretto di Matilde Tortora è uno stimolante punto di avvio per tentare di ricostruire questa fitta rete di rapporti inter ed extratestuali, e provare a rileggere, per l’ennesima e mai ultima volta, i Promessi sposi secondo una nuova lente. Non ha nulla a che vedere con il femminismo o altre ermeneutiche forzate oggi in voga: è più una sfumatura di sensibilità, un punto di vista particolarissimo, gestito forse in modo un po’ troppo sbrigativo, perché uscisse nel dicembre 2023, ultimissima finestra del Centocinquantenario manzoniano, come recita il colophon. Il testo avrebbe avuto bisogno di sedimentare ancora un po’, per perdere troppe movenze teatrali e acquistare maggiore uniformità di stile, e una trama, che non sono riuscito a scorgere sotto i molti ricami, gradevoli.
Rubrica a cura di Stefano Motta
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