Libri che rimarranno/99: la storia del Duomo (e di Milano) attraverso le sue pietre

Silvia è venuta qualche mese fa ad ascoltarmi a una mia conferenza: l’ho avvicinata e le ho detto, con invidia e affetto: “Mi hai rubato il libro che volevo scrivere io!”. Ci siamo messi a ridere insieme, di gusto, perché il suo ultimo lavoro, “La via del Marmo. Un viaggio nella storia da Candoglia a Milano” (MonteRosa Edizioni 2023, pagg.144, Euro 16,90) è davvero un’idea che anche a me frullava in testa da tempo.

Raccontare la storia della pietra di cui è fatto il Duomo di Milano, la fatica dei “picasass” che l’hanno cavata dalla Cava Madre di Candoglia, e l’avventura di trasportare quegli enormi blocchi giù lungo il Toce, il lago Maggiore, poi attraverso il Naviglio fino al centro di Milano, trecento metri appena dietro piazza Duomo. Una storia epica, un polpettone alla Ken Follett, una storia tipo “I pilastri della Terra” ma in salsa lombarda. Così l’avrei scritta io.
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Silvia
invece è una camminatrice appassionata, un occhio sensibile e una penna dolce: il suo libro non è come quello che io avrei avuto in mente di scrivere. È meglio. È un libro di storia, di quella storia locale che non è mai solo locale, soprattutto perché, sotto la signoria dei Visconti, Milano rivaleggiava con monarchie europee ben più blasonate quanto a importanza e ricchezza. Nasce anche per questo il progetto di costruzione del Duomo, in mezzo agli intrighi di corte e per mano di uomini non esattamente immacolati: Gian Galeazzo Visconti, Filippo Maria, gente che non andava troppo per il sottile se c’era da passare qualche avversario al fil di spada. Ma il Duomo, mirabile esempio nella storia, nasce anche grazie al coinvolgimento di tutta la popolazione, con sottoscrizioni, corvée, atti di generosità personale: una vera cattedrale per la città e della città.

Così, mentre si passeggia a ritmo e prosa lenta con Silvia lungo le strade del marmo, la Storia che si ripercorre non è solo quella di un monumento freddo: è quella di un territorio vivo, delle camelie e delle castagne, dei partigiani ossolani e dei boicottaggi contro le vie ferrate che avrebbero fatto concorrenza al naviglio: tutto il territorio visitato da Silvia in questa camminata è esso stesso un corpo in continuo divenire, mai finito, come “la fabbrica del Duomo”.

“Tutto il Duomo è passato dal Naviglio”, si diceva una volta. Di più: tutta Milano: in discesa dal lago verso la città carbone, legna, fieno, formaggi dell’Ossola, vino, vetro, pesci, bestiame, castagne: e questi pagavano il trasporto. Graniti bianchi di Montorfano, rossi di Feriolo o rosa di Baveno, beole di Locarno, calce da Ispra e marmo da Candoglia passava “ad usum fabricae”, cioè “a ufo”. In salita, verso il lago, viaggiavano il sale, il ferro, le granaglia e il letame delle fognature cittadine, utile su per concimare i campi.
Il Duomo fu l’occasione, il cuore pulsante di questa vita che scorreva lungo i navigli.

E adesso?
C’è poesia mista a nostalgia nel racconto di Silvia Tenderini, che si può usare come utile guida per un viaggio a piedi o in bicicletta, in sei tappe, da Ornavasso a Milano, ma che si legge davvero come un piccolo romanzo. E adesso, che i navigli sono stati coperti per fare spazio ai boulevard milanesi?

“L’acqua non fa più, sui soffitti delle case, quella gibigiana che dava così fastidio, non si ode più la rissa dell’Osteria di via Goito, i ragazzi non danno più scandalo tuffandosi nudi come vermi, le lavandaie non si vituperano più con tremende parolacce, la Mamma dei gatti non si accuccia più per spidocchiarsi al sole, non passano più sotto le finestre cani morti galleggianti come otri, non ci sono più zanzare, non ci sono più cattivi odori di fogna e acqua marcia. Che peccato”, scrive Dino Buzzati sul «Corriere della Sera» nel 1965.

Leggo il libro di Silvia Tenderini e dico anch’io “Che peccato!”. Non perché mi ha rubato un’idea, ma perché quella Milano, con quella poesia, non c’è più. È rimasto il Duomo, naturalmente. Ma forse il vero monumento era la rete capillare in cui scorreva tutta la vita che Silvia racconta così bene, e che adesso scorre altrove, forse. O forse non scorre più.
Rubrica a cura di Stefano Motta
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