Libri che rimarranno/98: ''Non basta essere bravi. Bisogna essere don Rodrigo" di Teresa Agovino

“Così, Don Alessandro (ma che avete combinato?), vi relegano nelle antologie del ginnasio inferiore, per uso dei giovinetti un po’ tardi e dei loro pigri sbadigli…”
Si apre con questa fulminante citazione dall’”Apologia manzoniana” di Carlo Emilio Gadda l’originale studio di Teresa Agovino “Non basta essere bravi. Bisogna essere don Rodrigo” (Armando Editore, Roma 2023, pp. 174, Euro 18,00). E in apertura al primo capitolo sembra che Manzoni stesso risponda: “Chi m’avariss mai dit ch’el dovess fa tanto fracass!”, con quel suo dialetto così pastoso che rintracciamo spesso nel suo epistolario.
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È la legge Coppino del 1884 a introdurre i “Promessi sposi” nelle scuole ma sarà poi il Regio Decreto del 1888, firmato dal ministro Boselli, a renderne obbligatoria la lettura, poi integrale al secondo anno di liceo. Ora che i vecchi “programmi” sono stati sostituiti dalle più generiche “Indicazioni”, e i “contenuti” dalle “competenze”, Manzoni resiste imperterrito (e perciò spesso odiato) come lettura non prescritta de iure ma obbligatoria de facto, generando schiere di studenti e lettori scontenti che poi – dicono – lo apprezzano rileggendolo solo da adulti.

Fin qui, nulla di nuovo. Non c’è lettore, scrittore, calciatore, influencer, ospite che mi sia capitato di intervistare su Manzoni che non abbia ripetuto questo cliché. Ma il saggio di Teresa Agovino fa un passo in più, e qui stanno l’originalità e l’interesse: indaga infatti la ricezione di Manzoni non nei manzonisti e negli accademici, né nella fascia bassa di consumatori, i lettori di best-seller gialli, di avventura, d’azione (i venticinque lettori di questa mia rubrica non si adombrino: la classificazione non è mia, bensì di Umberto Eco). Cerca invece nella seconda fascia di lettori, la più folta, che costituisce la gran parte della popolazione nazionale, ovverosia tutti coloro che, terminati gli studi superiori, hanno comunque conservato una infarinatura del romanzo di Manzoni, e lo usano, lo citano, lo riutilizzano in contesti non professionali.

Per questo è interessantissima e persino divertente la rassegna di meme, di tweet, di slogan pubblicitari e striscioni delle tifoserie calcistiche, di locandine cinematografiche parodiate e di parodie su youtube che Agovino offre nella seconda parte del suo saggio.

La terza, che si completa con una utile bibliografia e una ancora più utile sitografia, rende ragione invece dei dati quantitativi della ricerca condotta, con grafici e numeri, utili sia per il manzonista che voglia studiare la ricezione del capolavoro nella cultura di massa, sia per il sociologo che voglia capire qualcosa in più di questa massa attraverso questo filtro specifico e originale delle manzonerie.

Ho tralasciato finora la prima parte, perché è la più preziosa e feroce. Non c’è dubbio che il Covid-19 abbia dato la stura, soprattutto sui mass-media, ad ogni riferimento possibile e immaginabile alla peste manzoniana. Eppure la ripresa pare non essere andata oltre il citazionismo lessicale e la ricerca di coincidenze fin troppo lampanti. Le pagine manzoniane più importanti, quelle sulla malagestione dell’epidemia da parte delle autorità milanesi, quelle sull’artificiosità del discorso politico, e sull’ipocrisia di molti comportamenti, sono state lasciate a dormire nel romanzo. Perché troppo difficili, o perché troppo veritiere nella descrizione della politica e della società. E non del secolo diciassettesimo.

È un testo un po’ specialistico, in alcuni passaggi didascalico – forse troppo – e in altri geniale, ma è utile. Tra le troppe schifezze manzoniane uscite quest’anno, per il Centocinquantenario, alcune addirittura premiate qua e là in rassegne letterarie, questo saggio non solo non toglie nulla a Manzoni, non solo non gli fa ombra con interpretazioni bislacche, ma aggiunge qualcosa a quel che già si sa. Sposta un pochino in là lo stato dell’arte degli studi manzoniani. E per questo è un libro fatto bene.
Stefano Motta
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