Libri che rimarranno/97: "Tornare dal bosco", il romanzo di Maddalena Vaglio Tanet
Sono due i protagonisti di “Tornare dal bosco”, il bel romanzo di Maddalena Vaglio Tanet (Marsilio 2023, pp. 247, euro17,00): la maestra Silvia, “una donna un po’ stramba ma dimessa che per tutta la vita rifugge l’attenzione degli altri e, sparendo, finisce per attirarsela addosso”, e Martino, soprannominato “Torino” perché trapiantato dalla città a Biella, anzi nella piccola Bioglio, e lì male accolto dai suoi compagni di scuola elementare e di paese.
Siamo agli inizi degli anni Settanta e la piccola Giovanna, alunna della maestra Silvia, si getta dalla finestra della sua cameretta, e muore. Per fuggire dai rimproveri di un padre severo? Per un gioco finito male? A causa dei rimproveri di Silvia? È la maestra, più di tutti, a portare il peso della responsabilità: quel giorno, all’ennesima assenza immotivata della piccola alunna, ha telefonata alla madre per informarla, e chiedere spiegazione. “Non sgridatela”, aveva chiesto e consigliato. Ma poi…
Per questo ma forse non solo, Silvia si incammina verso il bosco, si rintana nascosta, si sottrae alle ricerche e si chiude, autoconsumandosi, fino a quando Martino non la trova, fortunosamente. “Non dire a nessuno che mi hai trovata”, gli chiede uscendo a forza da un silenzio attonito e trasandato: “Ti prometto che torno”.
Martino le porta quel che può per non rendere vana questa promessa cui lui forse non crede: pane burro e zucchero, i fumetti western, piccole cose da bambino.
La maestra Silvia è un enigma. “Era quello che si dice una maestra all’antica, tutta casa e scuola. Il suo mondo era rappresentato dal suo lavoro e nella sua vita non trovavano spazio altre distrazioni”, una donna cresciuta dai nonni e dalle suore, che diventa insegnante grazie all’odiato collegio e ne fa una missione, il centro della sua vita; non ha figli ma si prende cura di generazioni di bambini e cerca di essere una buona maestra (al contrario delle suore), ma poi si ritrova con un’alunna morta, precipitata nel fiume dalla sua cameretta. Cosa precipita nella sua mente?
Dietro questo racconto quasi fiabesco (c’è un bosco, c’è una casetta con una vecchia donna dentro, ci sono i “lupi” nel bosco, c’è un bambino che vi si addentra…) ci sono i ricordi di un fatto reale, che l’autrice cita nella nota conclusiva, e forse la filigrana di persone altrettanto reali. “La cugina di mio nonno, maestra, non sposata e senza figli […] amatissima da generazioni di ex alunni. Era una donna diversa dalle altre […]. Era forse più sola, ma ai miei occhi anche più libera. Non cucinava, non puliva la casa e non faceva niente di quello che ci si aspettava da una donna. Era inoltre una persona estremamente svagata e distratta…”, ricorda l’autrice. “Una vite spanata che non fa presa del tutto e non coincide come dovrebbe con la sua impronta”.
Una bambina la abbrutisce in questa fuga delirante (non è un errore: “abbrutisce” con una sola “b”, perché la maestra cerca di annullare la propria umanità, sprofondandosi nell’inedia e nella sporcizia), un bambino le ricorda quello per cui siamo fatti: non per viver come bruti, “ma per seguire virtute e [tornare a insegnare] canoscenza”.
Eccezion fatta per alcune scelte lessicali cacofoniche, Maddalena Vaglio Tanet scrive bene, senza inutili orpelli, dal cuore: le pagine hanno pàthos senza cadere nel patetismo, tensione senza i cliché della suspense. Quanti spunti si potrebbero ricavare, sulla pedagogia familiare, sul mondo della scuola, sui danni fatti dai collegi delle suore, sull’eroismo non retorico dei maestri, che davvero vivono per i loro alunni e muoiono un poco anche con loro. E sulla potenza dei bambini, capaci di salvare noi adulti dalle nostre follie.
Siamo agli inizi degli anni Settanta e la piccola Giovanna, alunna della maestra Silvia, si getta dalla finestra della sua cameretta, e muore. Per fuggire dai rimproveri di un padre severo? Per un gioco finito male? A causa dei rimproveri di Silvia? È la maestra, più di tutti, a portare il peso della responsabilità: quel giorno, all’ennesima assenza immotivata della piccola alunna, ha telefonata alla madre per informarla, e chiedere spiegazione. “Non sgridatela”, aveva chiesto e consigliato. Ma poi…
Per questo ma forse non solo, Silvia si incammina verso il bosco, si rintana nascosta, si sottrae alle ricerche e si chiude, autoconsumandosi, fino a quando Martino non la trova, fortunosamente. “Non dire a nessuno che mi hai trovata”, gli chiede uscendo a forza da un silenzio attonito e trasandato: “Ti prometto che torno”.
Martino le porta quel che può per non rendere vana questa promessa cui lui forse non crede: pane burro e zucchero, i fumetti western, piccole cose da bambino.
La maestra Silvia è un enigma. “Era quello che si dice una maestra all’antica, tutta casa e scuola. Il suo mondo era rappresentato dal suo lavoro e nella sua vita non trovavano spazio altre distrazioni”, una donna cresciuta dai nonni e dalle suore, che diventa insegnante grazie all’odiato collegio e ne fa una missione, il centro della sua vita; non ha figli ma si prende cura di generazioni di bambini e cerca di essere una buona maestra (al contrario delle suore), ma poi si ritrova con un’alunna morta, precipitata nel fiume dalla sua cameretta. Cosa precipita nella sua mente?
Dietro questo racconto quasi fiabesco (c’è un bosco, c’è una casetta con una vecchia donna dentro, ci sono i “lupi” nel bosco, c’è un bambino che vi si addentra…) ci sono i ricordi di un fatto reale, che l’autrice cita nella nota conclusiva, e forse la filigrana di persone altrettanto reali. “La cugina di mio nonno, maestra, non sposata e senza figli […] amatissima da generazioni di ex alunni. Era una donna diversa dalle altre […]. Era forse più sola, ma ai miei occhi anche più libera. Non cucinava, non puliva la casa e non faceva niente di quello che ci si aspettava da una donna. Era inoltre una persona estremamente svagata e distratta…”, ricorda l’autrice. “Una vite spanata che non fa presa del tutto e non coincide come dovrebbe con la sua impronta”.
Una bambina la abbrutisce in questa fuga delirante (non è un errore: “abbrutisce” con una sola “b”, perché la maestra cerca di annullare la propria umanità, sprofondandosi nell’inedia e nella sporcizia), un bambino le ricorda quello per cui siamo fatti: non per viver come bruti, “ma per seguire virtute e [tornare a insegnare] canoscenza”.
Eccezion fatta per alcune scelte lessicali cacofoniche, Maddalena Vaglio Tanet scrive bene, senza inutili orpelli, dal cuore: le pagine hanno pàthos senza cadere nel patetismo, tensione senza i cliché della suspense. Quanti spunti si potrebbero ricavare, sulla pedagogia familiare, sul mondo della scuola, sui danni fatti dai collegi delle suore, sull’eroismo non retorico dei maestri, che davvero vivono per i loro alunni e muoiono un poco anche con loro. E sulla potenza dei bambini, capaci di salvare noi adulti dalle nostre follie.
Rubrica a cura di Stefano Motta