LIBRI CHE RIMARRANNO/95: la vita bruciata di Gary Hemming

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La letteratura di montagna è un sottogenere molto interessante e fecondo. Ci sono case editrici che ne hanno fatto la loro spina dorsale identitaria, grandi scrittori che sono nati o sono approdati su questo terreno, grandi alpinisti che si sono poi riciclati come scrittori, piccoli scrittori che hanno creduto di poter diventare grandi raccontando le storie di grandi scalatori. E poi c’è Enrico Camanni. Che sa arrampicare e soprattutto sa scrivere.

Il suo ultimo libro, “Se non dovessi tornare. La vita bruciata di Gary Hemming, alpinista fragile” (Mondadori 2023, pagg.282, Euro 19,00) fa fatica ad essere catalogato solo all’interno di questo genere letterario.

È sicuramente la storia di un alpinista, il californiano Gary Hemming, già protagonista con John Harlin della salita dell’Aiguille de Fou e prima ancora apritore della cosiddetta “via Americana” sul Petit Dru, nel massiccio del monte Bianco. Ma è nella piovosa estate del 1966 che si rivela al mondo come una star, incosciente e generosa, organizzando il salvataggio di due alpinisti tedeschi incrodati sul Dru.

È sicuramente la storia di una montagna, il Bianco, dal versante francese, e degli uomini che l’hanno scalata: i passi di Hemming incrociano quelli di Desmaison, Bonatti, Gogna, per citare solo i nomi che anche i non addetti ai lavori dovrebbero conoscere.

È la storia della montagna, esemplificata su quella di una cittadina, Chamonix, che come e più di altre è divenuta l’esempio di tutto quello che non si dovrebbe fare in montagna. Hemming avvertiva, già negli anni Sessanta, quel che poi sarebbe successo: il turismo compulsivo, lo sci di massa, la globalizzazione del cibo e del marketing hanno trasformato Chamonix, come Cortina, come Madonna di Campiglio, come Canazei, come Cervinia, come Bormio, in luoghi senza più identità. Lo scrivo al termine di un’estate come questa del 2023 che ha fatto percepire nettamente i rischi dell’overtourism, e dello snaturamento di luoghi che, così pieni, perdono ogni significato. Chi si occupa di turismo e recettività nelle zone montane legga questo libro e ascolti: se si innesca questo circolo vizioso, le montagne prima o poi si svuoteranno. Hemming schiodava le vie che aveva appena tracciato, cancellava le tracce dei falò, non aveva alcun desiderio che le sue imprese venissero rese note e strombazzate: chi di noi va in montagna ha estrema necessità di recuperare quella filosofia ecologica della scalata, all’epoca rivoluzionaria ma oggi che si costruiscono ponti tibetani , panchine giganti e altre scemenze, attualissima e, oso dire, urgentissima.

È la storia di un salvataggio e delle sue responsabilità. Quello che Hemming compie sul Petit Dru, convincendo altri colleghi a mettere in gioco le proprie vite per salvare due imprudenti – va detto! – alpinisti tedeschi è un atto di enorme responsabilità. Per questo diventa, giustamente, una star. Lo scrivo al termine di un’estate come questa del 2023 in cui troppi incidenti, qualcuno anche letale, sono avvenuti per eccesso di confidenza o, peggio, per totale dissennatezza nell’affrontare un ambiente come quello montano che, per quanto antropizzato e addomesticato e instagrammato, non è un parco divertimenti. Chi ci va senza testa mette a repentaglio anche la vita di chi poi deve andare a soccorrerlo. Che andrà. Senza giudicare e discutere. Perché la vera anima della montagna sta in questo: non arrampicare per la cima, o per sé stessi, ma scalare per gli altri.

È la storia del Sessantotto. La fiamma di Hemming brucia vivida negli anni della guerra del Vietnam, dell’omicidio di Martin Luther King e di Che Guevara, negli anni dello sbarco sulla Luna. La notizia della morte di Hemming esce sui giornali accanto alla tragedia dell’omicidio di Sharon Tate, assassinata dalla setta di Charles Manson a Cielo Drive, sulle colline di Los Angeles. Si può leggere questo libro come un romanzo storico sul Sessantotto e non si rimane delusi.

È la storia di un altro libro che non abbiamo. Alla morte di Gary Hemming vennero ritrovati molti dei quaderni sui quali annotava i suoi pensieri. Numerati, avrebbero dovuto essere 32, e non tutti ci sono. Stava lavorando a un libro, “Patchwork”, commissionatogli da un importante editore dopo i fasti del 1966, che non riuscirà mai a terminare. Quando l’amico Pierre Geoffroy scrive il pezzo commemorativo su «Paris Match» non lo intitola “La morte di una grande arrampicatore”, ma “La fin tragique d’un poète”.

Per tutti questi motivi è molto di più che un libro “di montagna”, se questa potesse in qualche modo essere una definizione limitante. È un solido romanzo, e leggerlo non lascia indifferenti.

Rubrica a cura di Stefano Motta
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