LIBRI CHE RIMARRANNO/93:''La Malnata'' romanzo d'esordio di Beatrice Salvioni
Consigli per fare un romanzo furbo:
- essersi formati alla Scuola Holden;
- costruire una sceneggiatura circolare, con la fine che riprende l’inizio della storia;
- raccontare in prima persona;
- denunciare i soprusi del fascismo, insistendo soprattutto sul patriarcato e sul sessismo, temi che tirano sempre, oggi più che mai perché c’è la Destra al governo e bisogna ribellarsi;
- inserire qua e là qualche allusione ad amicizie e affetti omofiliaci (anche questa cosa oggi va di moda);
- giocare con qualche incursione nel linguaggio dialettale per dare una certa impressione di realismo o di mimetismo linguistico;
- curare il lancio dicendo già che “sono in programma traduzioni in tutto il mondo, riduzioni cinematografiche”, magnifiche sorti e progressive;
- scritturare una serie di amici giornalisti e amiche scrittrici plaudenti che dicono ogni magnificenza di questo testo;
- affiancare all’autore un editor più bravo dell’autore stesso (in questo caso nientemeno che una vincitrice del Campiello e finalista allo Strega).
Tutto ciò in parte giustifica il grande clamore mediatico scatenatosi attorno a “La malnata”, il romanzo d’esordio della giovane monzese Beatrice Salvioni (Einaudi 2023, pagg. 244, Euro 17,50).
Siamo a Monza nel marzo del 1936 e Francesca, figlia di un fabbricante di cappelli che aspira a ottenere contratti dal regime, fa amicizia con Maddalena, una ragazza ribelle, un po’ “strega” – nelle etichette pettegole della gente – un po’ maschiaccio, che tutti definiscono “la malnata”. Il Lambro è la via Pál di una Monza che non è Budapest e nelle mani di una scrittrice che non è Molnár. Le piccole battaglie dei “malnati” a piedi nudi nel Lambro, i piccoli furti di ciliegie, le scorribande per le vie di Monza, il confronto con i grandi, ora modelli ora carnefici, sono una metafora di quell’Italia piccola di provincia che stava decidendo da che parte stare, all’epoca della guerra d’Abissinia, prima che la parte fosse una sola e marciasse in stivali e fez.
Una storiella striminzita che molti – credendo, bontà loro, di fare un complimento – hanno accostato alle pagine di Elena Ferrante. Una furbissima operazione editoriale che potrà fare dignitosa compagnia nelle letture estive, e che magari può anche essere consigliata come lettura per i ragazzi delle scuole superiori. Poi, per questa opera prima, finisce lì.
La letteratura è un’altra cosa: è ispirazione più che mestiere, è scavo più profondo, molto più profondo, rispetto alla levità di questo esordio interessante ma immaturo, di certo – se vi fidate di me – non così folgorante come le agenzie stampa fanno e faranno ancora credere.
La scrittrice si farà? Sarebbe bello. Tante altre sue colleghe hanno esordito così, e poi nei romanzi seguenti hanno maturato uno stile proprio, definibile, originale, non confezionato. Sono curioso di leggerla ancora, più avanti.
- essersi formati alla Scuola Holden;
- costruire una sceneggiatura circolare, con la fine che riprende l’inizio della storia;
- raccontare in prima persona;
- denunciare i soprusi del fascismo, insistendo soprattutto sul patriarcato e sul sessismo, temi che tirano sempre, oggi più che mai perché c’è la Destra al governo e bisogna ribellarsi;
- inserire qua e là qualche allusione ad amicizie e affetti omofiliaci (anche questa cosa oggi va di moda);
- giocare con qualche incursione nel linguaggio dialettale per dare una certa impressione di realismo o di mimetismo linguistico;
- curare il lancio dicendo già che “sono in programma traduzioni in tutto il mondo, riduzioni cinematografiche”, magnifiche sorti e progressive;
- scritturare una serie di amici giornalisti e amiche scrittrici plaudenti che dicono ogni magnificenza di questo testo;
- affiancare all’autore un editor più bravo dell’autore stesso (in questo caso nientemeno che una vincitrice del Campiello e finalista allo Strega).
Tutto ciò in parte giustifica il grande clamore mediatico scatenatosi attorno a “La malnata”, il romanzo d’esordio della giovane monzese Beatrice Salvioni (Einaudi 2023, pagg. 244, Euro 17,50).
Siamo a Monza nel marzo del 1936 e Francesca, figlia di un fabbricante di cappelli che aspira a ottenere contratti dal regime, fa amicizia con Maddalena, una ragazza ribelle, un po’ “strega” – nelle etichette pettegole della gente – un po’ maschiaccio, che tutti definiscono “la malnata”. Il Lambro è la via Pál di una Monza che non è Budapest e nelle mani di una scrittrice che non è Molnár. Le piccole battaglie dei “malnati” a piedi nudi nel Lambro, i piccoli furti di ciliegie, le scorribande per le vie di Monza, il confronto con i grandi, ora modelli ora carnefici, sono una metafora di quell’Italia piccola di provincia che stava decidendo da che parte stare, all’epoca della guerra d’Abissinia, prima che la parte fosse una sola e marciasse in stivali e fez.
Una storiella striminzita che molti – credendo, bontà loro, di fare un complimento – hanno accostato alle pagine di Elena Ferrante. Una furbissima operazione editoriale che potrà fare dignitosa compagnia nelle letture estive, e che magari può anche essere consigliata come lettura per i ragazzi delle scuole superiori. Poi, per questa opera prima, finisce lì.
La letteratura è un’altra cosa: è ispirazione più che mestiere, è scavo più profondo, molto più profondo, rispetto alla levità di questo esordio interessante ma immaturo, di certo – se vi fidate di me – non così folgorante come le agenzie stampa fanno e faranno ancora credere.
La scrittrice si farà? Sarebbe bello. Tante altre sue colleghe hanno esordito così, e poi nei romanzi seguenti hanno maturato uno stile proprio, definibile, originale, non confezionato. Sono curioso di leggerla ancora, più avanti.
Rubrica a cura di Stefano Motta