Bancarotta Diana: chiesta la condanna per l'amministratore, ma solo per la contabilità

Ultime battute del processo incardinato attorno al fallimento - decretato nel 2017 - dalla Rue Royal Diana, storica realtà meratese, specializzata nella produzione di costumi da bagno, avviata dalla famiglia Bechis e poi passata di mano poco prima di essere dichiarata "estinta" dal Tribunale di Lecco. In attesa di giudizio, dopo il patteggiamento dell'ultimo amministratore di diritto, resta soltanto Jeder Giulio Alacchi, quale supposto amministratore di fatto dell'impresa, una qualifica che, come ricordato quest'oggi nella propria requisitoria dal PM, inconfutabilmente si cuce addosso all'uomo, anche in considerazione delle dichiarazioni rese nel corso dell'esame.

Nel trarre le proprie conclusioni, il sostituto procuratore Simona Galluzzo - erede di un fascicolo imbastito da altri - però, con tutta onestà, ha chiesto per lui l'assoluzione in riferimento a una delle due condotte che gli vengono ascritte. In particolare, per la rappresentante della pubblica accusa, l'ipotizza bancarotta distrattiva "non sussiste". Cornice di tale ipotesi di reato è infatti la mancata corresponsione del canone pattuito tra la Diana e altra società per l'affitto, in favore di quest'ultima, di un ramo d'impresa. Si parla di 48.000 anni, cifra ritenuta non congrua dal curatore fallimentare. Una valutazione, però, "non ancorata a valori oggettivi" secondo la PM, sottolineando come il professionista abbia basato la propria stima sul valore dell'immobile dove la Diana operava, mentre Alacchi stesso, in Aula, ha spiegato come a tale quantum si fosse arrivati basandosi sul fatturato dell'azienda, crollato nell'ultima finestra di attività. E se effettivamente il pagamento del canone pattuito non c'è stato, tra le due aziende coinvolte - ha sottolineato ancora la dottoressa Galluzzo - si è realizzata una sorta di "confusione di patrimoni" ed è altresì provato che l'affittuaria abbia saldato di proprio debiti pregressi della Diana.

Discorso diverso per la seconda imputazione, ossia la bancarotta documentale, cristallizzatasi - sempre nella ricostruzione del sostituto procuratore - nel momento in cui non è stato fornito al curatore quanto necessario per ricostruire la contabilità della fallita. Da qui la richiesta di condanna dell'amministratore di fatto dell'impresa a 3 anni.

Ha insistito per l'assoluzione anche in relazione a tale condotta, di contro, l'avvocato Stefania Fiorentino, difensore di Alacchi, oggi non in Aula per impegni di lavoro all'estero. Secondo la legale, nel rendere esame, il proprio assistito ha chiaramente spiegato come la gestione amministrativa fosse in capo all'originale co-imputato, già uscito di scena patteggiando. E a riprova di ciò ha citato le dichiarazioni di una impiegata che, già al tempo dei Bechis, si occupava della prima contabilità. "Esistono bancarotte di filibustieri che alla fine lasciano le società nelle condizioni di scatole vuote. Non è questo il caso" la chiosa dalla toga, evidenziando - anche in relazione al capo 1 - come Alacchi si sia adoperato davvero per risollevare l'azienda, mettendola poi in sicurezza scegliendo di non formalizzare il contratto di cessione del marchio così da lasciare il marchio stesso e l'immobile di proprietà in pancia al fallimento.

La sentenza è ora prevista per il prossimo 21 settembre.

A. M.
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