LIBRI CHE RIMARRANNO/90: il capolavoro di Paolo Malaguti ''Piero fa la Merica''

"Paolo Malaguti è uno scrittore che azzecca un libro sì e uno no. Quando ci riesce ci consegna dei capolavori. Quando no, di solito il mercato lo premia."
Scrivevo così nel novembre dello scorso anno recensendo il penultimo libro di Malaguti, "Il moro della cima" (CLICCA QUI).
"Tutti gli appassionati della montagna, tutti gli appassionati della Prima Guerra Mondiale, tutti gli affezionati alle storie popolari, tutti i docenti di storia del quinto anno delle superiori (e i loro studenti, anche) lo leggano senz'altro, e non sarà tempo perso. Io aspetto il prossimo romanzo.", finivo.
E il prossimo romanzo è arrivato, ed è un capolavoro.
"Piero fa la Merica" (Einaudi 2023, pagg. 196, Euro 18,50) è un romanzo molto bello, costruito bene e scritto meglio. Incontriamo il protagonista quando ha quindici anni e si arrabatta nel bosco del Montello insieme con la sua famiglia di "bisnenti", gente che ha due volte niente. Poveri senza terra e con tanti figli, che nell'Italia postunitaria non hanno trovato né pane né patria.
Perciò partono, il padre, i due figli maschi più grandi e la sorella maggiore Lina, per la "Merica". Non quella del Nord, come tante storie di emigrazione di hanno raccontato, ma quella del Sud. Non l'Argentina che ancora oggi è quasi una seconda Italia, ma il Brasile. San Paolo e poi dentro nella foresta amazzonica, a fondare una colonia là dove ci sono solo alberi, pappagalli, "bissi dei piedi" e nativi.
Detta così in poche righe sembrerebbe una storia già sentita: povertà, fame, sfruttamento, la lotta contro la natura, il primo vagheggiato amore, lo scontro con le popolazioni locali, la fede rustica e semplice, la nostalgia della madre, più che della madrepatria. Ma sono la lingua e il montaggio di Malaguti a renderla diversa. Un italiano impastato di cadenze e gergalismi veneti che non solo non dà fastidio né impaccia la lettura, ma anzi rende pastosa la prosa. È qualcosa di più che un mimetismo di stile: diventa uno stile in sé, tipico di Malaguti (quando gli riesce il romanzo) ed efficacissimo.
E poi c'è il montaggio, con quella sorta di ricapitolazione finale che, davvero, dà i brividi e fa alzare sulla poltrona e dire: "Bravo!", come se ce l'avessi davanti l'autore.
Ogni sceneggiatura che si rispetti vive di tre fasi: l'impostazione del problema, lo svolgimento e la risoluzione. Ogni libro cattura il lettore dall'inizio, e chiunque sa quanto sia importante l'incipit. Ma è il finale quello che poi uno ricorda, e che distingue una storia dalle altre.
In quest'anno manzoniano c'è un che di manzoniano anche nelle pagine che chiudono la storia, una specie di "sugo della storia" che Piero sintetizza quasi ricalcando le parole dell'"Adelchi": "Piero si domanda se valga davvero la pena cercare di venire fuori dalla miseria, se il prezzo da pagare è così alto. Si domanda pure se esista, in giro per il mondo, qualcuno in grado di godersi una ricchezza che non sia costata un qualche patimento a un altro disgraziato [...]. Si accontenta di tenersi ferme quelle due verità da quattro soldi che, così gli sembra, sono il suo unico guadagno in tutta la faccenda: che al mondo c'è chi fa il male e poi se ne torna a casa tranquillo, perché quel male lo ha fatto per il bene di chi ama. E che forse non esiste pitocco tanto pitocco da non essere, almeno una volta nella sua magra esistenza, carnefice di qualcun altro."
"Sulla terra non resta che far torto o patirlo, perché una forza feroce governa il mondo", diceva Manzoni. Ed è vero.
La pagina finale, così straniante, quasi surreale, cerca di riparare almeno uno di questi torti, il più piccolo forse. Per questa ragione, come si vedrà, il meno dimenticato.
Avevo ragione, nel novembre scorso, a voler aspettare Malaguti al prossimo romanzo: che è questo, ed è bellissimo.
 
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Rubrica a cura di Stefano Motta
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