LIBRI CHE RIMARRANNO/86: “Ma tu chi sei” di Arpaia. Una storia, triste, di tutti

Manca il punto interrogativo nella domanda che fa da titolo al bello, bellissimo libro di Bruno Arpaia, "Ma tu chi sei" (Guanda, pagine 167, euro 18).

"Ma tu chi sei?" chiede la madre ultranovantenne, ammalata di Alzheimer, al figlio, scrittore, che va a trovarla con ostinato amore.

"Ma tu chi sei?", chiede il figlio, in silenzio, guardando quella donna dalle mille ossessive e ripetitive domande, che protesta autonomia in mezzo ai suoi sempre più frequenti smarrimenti, ai capricci quasi infantili di una madre che dopo aver accudito ha ora bisogno di essere accudita lei stessa, nonna che fatica a riconoscere i nipoti e il figlio stesso.

"Ma tu chi sei?" chiede l'autore a sé stesso, spaesato in un mondo stracciato da Covid e guerra: «Soltanto due o tre anni fa, mi identificavo ancora con il giovane me stesso... nonostante godessi già dello sconto per anziani sui treni. Oggi qualcosa nel mio cervello mi dice perentoriamente che è meglio non farlo insomma, avverto nel corpo il dolore del tempo».
Chi è Bruno Arpaia, autore e protagonista di questo libro impudico, doloroso eppure persino ironico?
Bruno Arpaia è giornalista e scrittore fecondo, profondo conoscitore della letteratura latino-americana, ha curato i Meridiani Mondadori dedicati a Gabriel García Márquez e a Mario Vargas Llosa. È stato il traduttore dei romanzi del mai abbastanza compianto Carlos Ruiz Zafón e colui che dà la voce, potentissima, alla prosa violenta e immaginifica di Arturo Pérez-Reverte. È uno che si intende di romanzi. E con questo libro ci spiazza, reinventando il genere.
Si dirà che la produzione contemporanea è piena di libri autobiografici ed egoriferiti (vogliamo parlare del premio Nobel 2023 alla Ernaux?!?), ma questo di Arpaia non è solo autofiction.

"Ma tu chi sei?" se lo chiede anche il lettore, anch'egli - come l'autore-protagonista - disarmato e impreparato rispetto al tempo che scorre, inesorabile e indifferente.
E mentre gli anni si accumulano, i ricordi evaporano.
Lo scrittore famoso, il traduttore dei grandissimi, non trova parole forbite che spieghino questa lenta consunzione, e anzi vede nella mamma lo specchio che riflette quella malattia e quella decadenza che prima o poi arriverà anche vicino a lui.
Il lettore ride, amaramente, e si commuove, tanto, di fronte al racconto di questo amore filiale e materno che deve essere reinventato per essere davvero amore, e non solo compassionevole accudimento.
La mamma non può più stare da sola nell'appartamento di 140 mq ad Ottaviano, a Napoli. Meglio una struttura di accoglienza. «E mentre lei a poco a poco, si andava rassegnando all'idea di trasferirsi, io dovevo fare i conti con quella dell'addio a mia madre come l'avevo sempre pensata, dove l'avevo sempre pensata [...] Così l'avevo abbracciata e baciata, respirando la sua vecchiaia, il passato che la stava abbandonando, il tempo che si era irrancidito, i miei rimorsi e i miei rancori di figlio».
È questa lingua corrusca e pastosa di Arpaia a fare la differenza tra il patetico e il pàthos, a dare ritmo e lacrime al racconto di una vecchiaia uguale - purtroppo - a quelle delle mamme e delle famiglie di molti, moltissimi lettori.
«Quando mi accompagna nel piccolo giardino prima del cancello della residenza, la luce sembra arrivare torbida, già sconfitta, sui gerani nelle aiole, sul tavolo di plastica bianca, sull'altalena accanto alla porta a vetri dell'ingresso. Lei sta ancora piangendo. Mi chino, notando quanto ormai devo abbassarmi per raggiungerla, e la abbraccio e la bacio di nuovo sui capelli».
Erano anni che non mi capitava di leggere pagine così belle, pur su un tema così triste

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Rubrica a cura di Stefano Motta
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