LIBRI CHE RIMARRANNO/85: ''Villa del seminario'' romanzo di Sacha Raspini

La Chiesa fu complice del nazifascismo? Cosa succede se da un giorno all'altro ti piazzano un campo di concentramento accanto a casa tua? Come reagisce la gente del posto?
Sono le domande che animano il recentissimo romanzo di Sacha Raspini, "Villa del seminario" (E/O, 2023, pagg. 204, Euro 17,40). Siamo alla fine del 1943 a Le Case, il toponimo d'invenzione dietro cui Raspini occulta il borgo maremmano di Roccatederighi, dove sorge la villa in cui i seminaristi della diocesi di Grosseto trascorrono i mesi estivi.
Fino a quando il vescovo Paolo Galeazzi non la affitta ai fascisti, che ne fanno un campo di smistamento per gli ebrei destinati alla deportazione verso i campi di sterminio.
Ha ragione Paccagnini sulla «Lettura», ad accostare questo romanzo al "Rogo della Repubblica" di Molesini o, aggiungo io, a "Salvarsi a vanvera" di Paolo Colagrande: gli ingredienti dei romanzi storici che questi anni ci stanno consegnando sono perlopiù i medesimi. Una ricostruzione storica, una lettura, un'invenzione narrativa.
E un'impostura. Come in "Salvarsi a vanvera" anche qui c'è una piccola truffa a danno dei fascisti: là era l'invenzione di una fantomatica miniera di lignite, qui è il cinquantenne René, ciabattino del paese soprannominato Settebello perché ha solo sette dita, avendone lasciate tre sotto un tornio, che resiste, a modo suo. "Io faccio la guerra degli scarponi", dice. E curando quelli dei camerati ne aggiusta in realtà le suole con chiodature precarie, che li rendano inaffidabili. Chi li indossava sarebbe ben presto ruzzolato, e anche la calzatura si sarebbe slabbrata diventando nulla più che una ciabatta.
Eppure non è questa la ragione per cui viene arrestato e finisce nella Villa del Seminario: è per i suoi acquisti sospetti. Matite e quaderni, strumenti di scrittura che i fascisti sospettano servano ai partigiani e che Renè usa per il suo proprio diario: scrivere come forma di resistenza.
La storia di questa villa diocesana, un caso unico nella storia italiana, è rimasta pressoché sepolta, come un vecchio edificio coperto di rovi, fino al 2010. Lo dice anche Naspini, a pagina 183: "La camminata proseguiva fino alla villa del vescovo. Il grande giardino era ormai mangiato dai roveti e dall'erba alta. [...] Ma prima di tutto c'era da girare un muro. Non sapeva quando lo avevano costruito, a questa domanda c'erano due soluzioni: [...] nel '43 per non far vedere dalla strada cosa stava accadendo nella casa del monsignore; o dopo, quanto tutto era finito, per dimenticarlo."
La prosa di Naspini è dura e necessaria, talora martellante. Quando si accosta alla Storia, la Letteratura è utile se abbatte muri e crea varchi.


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Rubrica a cura di Stefano Motta
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