Cernusco: Giuseppe Ascoli mette al centro "La banalità del male" di Hannah Arendt

"Una persona può fare del male senza essere malvagia?" e "Come si sa di avere una coscienza?" sono complesse domande che il dottor Giuseppe Ascoli ha posto al pubblico presente, sabato 28 gennaio, in biblioteca a Cernusco per analizzare il famoso e tanto dibattuto testo "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme", scritto dalla filosofa Hannah Arendt dopo aver seguito, nel 1961, il processo per crimini di guerra ad Adolf Eichmann, funzionario nazista responsabile di aver organizzato il trasporto di milioni di ebrei nei campi di concentramento per la "soluzione finale".



La risposta al perché il testo sia stato tanto criticato e generò pareri discordanti sta nel fatto che la Arendt arrivò a concludere che non si potesse parlare di Eichmann come di un mostro senza morale, ma come un'incosciente che non riusciva a comprendere la natura maligna dei suoi gesti. Arendt sintetizzò queste caratteristiche di Eichmann nella formula “la banalità del male”: egli non era intrinsecamente cattivo, ma semplicemente superficiale e inetto. Era un uomo che si è fatto trascinare nel partito nazista in cerca di uno scopo o di una direzione e non in nome di una convinzione ideologica radicata. Nel racconto di Arendt, Eichmann ricorda il protagonista de "Lo straniero" (1942) di Albert Camus, che uccide un uomo per caso ma poi non prova alcun rimorso. Non c’è un’intenzione particolare nel suo gesto o un’ovvia motivazione malvagia, “è successo e basta”.



Anche dieci anni dopo il suo processo in Israele, nel 1971, lei scriveva: “Restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause o di motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore – per lo meno l’attore tremendamente efficace che si trovava ora sul banco degli imputati – risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco o mostruoso”. La motivazione che Hannah Arendt dà rispetto a questa mancata assunzione di responsabilità e di comprensione della gravità del fenomeno è che i crimini nazisti non siano stati dovuti tanto alla crudeltà dei loro carnefici, ma al fatto che i protagonisti delle atrocità verso gli ebrei si fossero in qualche modo “privati” di pensiero, pienamente inseriti all’interno del meccanismo totalitario nazista. I nazisti, quindi, non sarebbero affatto incarnazioni degli aspetti più spregevoli dell’animo umano, ma banali individui inseriti all’interno di un meccanismo infernale. Il che comporta una pericolosa considerazione: chiunque, inserito nello stesso meccanismo, potrebbe agire nello stesso modo.



In un'altra sua opera intitolata "La nascita dei totalitarismi" Hannah Arendt studia più approfonditamente come queste forme politiche si siano instaurate ed abbiano influenzato il popolo. È qui che Arendt riconosce il concetto di massificazione delle persone, sempre più uniformate ed appiattite dalla società, tanto da non poterne più fuoriuscire perché private della propria coscienza e pensiero critico. Ingoiati dalla massificazione del pensiero, non solo Eichmann, ma ogni nazista e tutti i loro volenterosi aiutanti avevano, in realtà, cessato di porsi davanti al tribunale della propria coscienza, avevano delegato all'obbedienza di ideologie altrui il proprio libero arbitrio. L'uomo sotto il totalitarismo nazista si era nullificato, andando a raggiungere lo stato primordiale di animale che risponde ai comandi. Per Arendt i nazisti erano dunque persone prive di una propria coscienza, incapaci di riflettere ed ingnoranti nel distinguere il bene dal male, perché nullificate e manipolate dalle direttive di Hitler. Il male aveva raggiunto un'estremismo tale da invadere il mondo e pervadere la coscienza, perché la massificazione aveva reso favorevole ciò. Il male non è radicale e demoniaco nelle persone. Solo il bene profondo può essere radicale e salvare le persone.

Hannah Arendt non ha mai riconciliato le sue impressioni sulla banalità di Eichmann con la consapevolezza degli atti malvagi e inumani del Terzo Reich che aveva prima. Vide un funzionario come tanti altri, ma non un guerriero ideologicamente cattivo. Come la vita banale di Eichmann potesse coesistere con quell’“altro” malvagio mostruoso la tormentava. In ogni caso, Arendt non minimizzò mai la colpevolezza di Eichmann, descrivendolo più volte come un criminale di guerra, e concordò con la condanna a morte stabilita dal tribunale di Israele. Nonostante le motivazioni di Eichmann fossero, per lei, oscure e sfuggenti, le sue azioni da genocida non lo furono. Alla luce dei fatti, Arendt vide davvero il vero orrore della malvagità di Eichmann.
M.Pen.
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